Allora, ormai questo blog giace
abbandonato da lungo tempo. Gli interessi, la vita e il fatto che
sono un pigro mi hanno portato a coltivarlo molto poco.
Però è accaduta una cosa importante
ed ecco perchè lo riesumo per l'occasione.
Compiuti i 37 anni sono vergognosamente
invecchiato dentro. Ecco, questo fatto non mi è passato inosservato.
Me ne son reso conto dai particolari:
ho cominciato a sparecchiare la tavola mentre gli altri commensali
ancora mangiano, come mia nonna; ricordo con nostalgia eventi
risalenti ad anni prima, come faceva mio nonno con la Guerra. E
siccome ho come grande rimpianto della mia vita di non essermi
appuntato ogni singola parola di ogni singolo evento che mi ha
raccontato, ho deciso di riportare qui un episodio della mia semplice
vita. Un episodio di grandezza.
Correva l'anno 1996 e la mia classe
delle superiori fu invitata a passare dieci giorni in Germania ospiti
di una scuola superiore di Speyer, città gemellata con Ravenna.
Io ho sempre praticato sport, non sono
mai stato competitivo in nulla, troppo scarso per emergere
tecnicamente e troppo timido per emergere di agonismo puro.
Però il caso ha voluto che in quei
dieci giorni il mio fisico si esprimesse su livelli mai raggiunti.
La mia settimana da vincente è stata
quella.
Ci sono diversi episodi legati a sfide
di tennis, di basket e di pallavolo ma l'aneddoto che voglio lasciare
ai posteri è legato alla partita di calcetto.
Durante tutto il periodo sia noi che i
nostri ospiti tedeschi sapevamo che saremmo finiti a giocare a
calcio. Abbiamo fatto tante cose assieme, in gruppo o con la famiglia
che ci ospitava ma tutti, nessuno escluso, sapevamo che prima o dopo
la partita col pallone sarebbe arrivata.
E' arrivata uno degli ultimi giorni,
diciamo che è arrivata il giorno prima della ripartenza, il
pomeriggio prima della festa di saluto.
Forse non per caso, nessuno voleva
portare l'onta della sconfitta per giorni. Partita e poi arrivederci
in Italia.
Ricordo chiaramente ogni istante di
quella partita. Noi avevamo in squadra due fenomeni e altri giocatori
di buon livello. Io ero quello che usa il sinistro. Cioè, non ero
uno dei forti ma essere mancino mi ha sempre assicurato il posto in
squadra. Il mio compito era presidiare la fascia e non fare casini,
meno mi si notava e meglio era. Il mio ruolo perfetto.
Ma non quel giorno.
Scendiamo in campo e ci rendiamo conto
di essere più bravi. Però loro sono la Germania. In quel momento
non sono un gruppo di ragazzi di una squadra, sono la nazionale
tedesca.
Pronti via e subito uno a zero per noi.
In porta abbiamo un portiere che è una sentenza ma oggi non siamo
l'Italia che soffre e si arrocca, oggi siamo calcio champagne.
Non ricordo come ma loro fanno uno a
uno. Un colpo di sfiga. Ecco, in quel momento succede qualcosa. Lo
spirito di Roberto Carlos si impossessa di me (vorrei dire di Andy
Brehme ma mi pare fuoricontesto), divento signore indiscusso di
quella fascia. Sono incontenibile. Di colpo divento quello cui
passare la palla e all'improvviso: due a uno, segno io.
Dal due a uno entro in trance
agonistica, mi riesce di tutto. Salto l'uomo (ok, sulla mia fascia
non c'era Gerd Muller ma il più scarso del gruppo) passo, chiudo,
rubo palloni, sono ovunque.
Mi sento il classico giocatore Box to
box, come direbbero gli inventori del calcio.
Pecchiamo di presunzione, giochiamo il
calcetto totale e la Germania, cinica come sempre, ci punisce. Due a
due. Fine primo tempo e inversione di campo.
Il secondo tempo è un assedio, da
qualche parte nel mio cervello si sblocca pure l'area dedicata
all'agonismo. Chi mi conosce stenta a riconoscermi, sono una furia.
Ma loro tengono, han capito di essere meno forti, qualunque risultato
che non preveda la sconfitta per loro è un successo. E noi
continuiamo l'assedio. Ad un certo punto mi propongo per un
triangolo, ricevo la palla di ritorno sulla fascia, mentre corro
sembro Forrest Gump. Io sono sempre stato piuttosto lento ma non quel
giorno. Quel giorno corro, corro verso la gloria eterna. O vero
l'inutilità, se uno ha una cartuccia buona può spendersela meglio,
in effetti. Prendo velocità come mai in vita mia, salto l'uomo e
faccio partire il mio sinistro. Non era necessario, potevo avanzare
ancora, ormai nessuno si frapponeva fra me e il portiere. Ma quando
sei in “zona rossa” fai solo quello che il tuo corpo ti dice, non
quello che la testa ritiene giusto. Parte un bolide che viaggia a
dieci centimetri da terra. E' insidioso, è veloce, è angolato. E'
imparabile.
Io continuo a correre, tutti noi
capiamo l'importanza di quel goal e io ho un pensiero che mi
attraversa la testa. Il pensiero ha un nome e cognome: Marco
Tardelli. Esulto urlando e agitando i pugni proprio come Tardelli
nella finale dell'ottantadue.
E' il colpo decisivo, i tedeschi si
disuniscono, si rendono conto che stanno perdendo, in casa e che
nessuno potrà cambiare questo finale. C'è gloria anche per gli
altri, finisce quattro a due e quasi ci dispiace che non ne segnino
un terzo loro per emulare la mitica semifinale.
Ecco, adesso nessuno dimenticherà mai.
Grazie.