Quest’estate mi sono avventurato in una vacanza in montagna. Il mio approccio eroico e epico alle cose mi ha portato a mettermi a dieta nei mesi precedenti e nell’andare a correre quattro mattine a settimana nel mese precedente alla partenza. Per essere ancora più eroico andavo a correre la mattina alle 6.00, mica tanto mezzoretta.
Volevo essere in forma, dato che dovevo portare Gaia sulle spalle, e volevo essere in grado di scarpinare, di farmi qualche bella escursione. Quindi c’ho lavorato. Appena arrivato in montagna mi si presenta l’occasione, Andrea (il mio amico genio) ha lanciato la sfida: chi c’è per la camminata al Velo? Il Velo è il rifugio “Velo della Madonna”. Da san Martino di Castrozza, base di partenza, sono 3 ore abbondanti a salire e 2 ore e mezza a scendere ma soprattutto sono 900 metri di dislivello. La sfida mi ha ingolosito e la mattina del quarto giorno siamo partiti, i gironi precedenti con Gaia sulle spalle era andato tutto bene, la preparazione dava i suoi frutti. Non sapevo esattamente cosa mi aspettasse. Avevo capito che si trattava di qualcosa di impegnativo, dato che nessun altro si era aggregato, ma non avevo colto quanto. In realtà al “quanto” ero anche pronto, non ero pronto al “come”. Siamo partiti Andrea, La Tigre (cane) e io. Il sentiero comincia subito in modo impegnativo e dopo i primi 20 minuti di avvio di inerpica per più di un’ora in maniera sostanziosa con molti tratti del bosco dove si sale grazie a degli scalini. Questo mi aveva provato, pensavo ad una camminato lunga e impegnativa ma l’avvio è stato tirato. A questa prima parte fa seguito un lungo tratto in lieve salita. Dura poco più di un’ora, questa seconda parte. Lieve pendenza, sentiero stretto ed aperto con possibilità di ammirare il panorama che offre costeggiare un monte. In questo lungo tratto ho provato a recuperare le forze, cercando di non sollecitare troppo il ginocchio che aveva risentito dei tanti ed alti scalini. Giunti verso la fine ma con il rifugio sadicamente nascosto dalla parete da salire, il sentiero di inerpica nuovamente, per un po’ meno di un’ora. In questo tratto vi è pure un punto con una fune in metallo cui aggrapparsi per aiutarsi a salire. Ecco, superato questo punto ho dovuto dichiarare la mia resa. Mi sono fermato perché il ginocchio era stanco. Non avevo male, non lo sentivo dolorante, lo sentivo stanco. Ci siamo fermati una ventina di minuti ma ho capito che non sarei riuscito ad andare oltre. Dopo più di tre ore di camminata ero bloccato a 10/15 minuti dalla vetta. E non sono andato avanti, mi sono fermato, ho riposato, mi son girato e sono ripartito verso la discesa. Andrea e Tigre sono andati avanti fino alla cima, io pian pianino sono sceso fino a valle. E ricordo esattamente la mia emozione del momento. Ero felice, felice di essermi fermato. Stavo scendendo, sentivo che il ginocchio andava bene, sapevo cosa aspettarmi dal percorso, quali erano le criticità e non avevo timori riguardo al riuscire a tornare a valle. Ho pensato molto in quelle due orette in solitaria, mentre scendevo. Ho pensato al fallimento della mia impresa, al fatto che quattro mesi di dieta e un mese id preparazione fisica non fossero bastati a fare una cosa che goli anziani fanno senza problemi senza doversi preparare affatto. Durante le sei ore abbondanti della giornata ho incontrato di tutto, ragazzini, bambini, mamme, anziani e tutti sono saliti in cima e sono abbastanza sicuro di essere stato il più preparato di tutti. Non il più in forma, è evidente, però il più preparato, quello che si era dedicato maggiormente alla montagna nei mesi precedenti.
Volevo essere in forma, dato che dovevo portare Gaia sulle spalle, e volevo essere in grado di scarpinare, di farmi qualche bella escursione. Quindi c’ho lavorato. Appena arrivato in montagna mi si presenta l’occasione, Andrea (il mio amico genio) ha lanciato la sfida: chi c’è per la camminata al Velo? Il Velo è il rifugio “Velo della Madonna”. Da san Martino di Castrozza, base di partenza, sono 3 ore abbondanti a salire e 2 ore e mezza a scendere ma soprattutto sono 900 metri di dislivello. La sfida mi ha ingolosito e la mattina del quarto giorno siamo partiti, i gironi precedenti con Gaia sulle spalle era andato tutto bene, la preparazione dava i suoi frutti. Non sapevo esattamente cosa mi aspettasse. Avevo capito che si trattava di qualcosa di impegnativo, dato che nessun altro si era aggregato, ma non avevo colto quanto. In realtà al “quanto” ero anche pronto, non ero pronto al “come”. Siamo partiti Andrea, La Tigre (cane) e io. Il sentiero comincia subito in modo impegnativo e dopo i primi 20 minuti di avvio di inerpica per più di un’ora in maniera sostanziosa con molti tratti del bosco dove si sale grazie a degli scalini. Questo mi aveva provato, pensavo ad una camminato lunga e impegnativa ma l’avvio è stato tirato. A questa prima parte fa seguito un lungo tratto in lieve salita. Dura poco più di un’ora, questa seconda parte. Lieve pendenza, sentiero stretto ed aperto con possibilità di ammirare il panorama che offre costeggiare un monte. In questo lungo tratto ho provato a recuperare le forze, cercando di non sollecitare troppo il ginocchio che aveva risentito dei tanti ed alti scalini. Giunti verso la fine ma con il rifugio sadicamente nascosto dalla parete da salire, il sentiero di inerpica nuovamente, per un po’ meno di un’ora. In questo tratto vi è pure un punto con una fune in metallo cui aggrapparsi per aiutarsi a salire. Ecco, superato questo punto ho dovuto dichiarare la mia resa. Mi sono fermato perché il ginocchio era stanco. Non avevo male, non lo sentivo dolorante, lo sentivo stanco. Ci siamo fermati una ventina di minuti ma ho capito che non sarei riuscito ad andare oltre. Dopo più di tre ore di camminata ero bloccato a 10/15 minuti dalla vetta. E non sono andato avanti, mi sono fermato, ho riposato, mi son girato e sono ripartito verso la discesa. Andrea e Tigre sono andati avanti fino alla cima, io pian pianino sono sceso fino a valle. E ricordo esattamente la mia emozione del momento. Ero felice, felice di essermi fermato. Stavo scendendo, sentivo che il ginocchio andava bene, sapevo cosa aspettarmi dal percorso, quali erano le criticità e non avevo timori riguardo al riuscire a tornare a valle. Ho pensato molto in quelle due orette in solitaria, mentre scendevo. Ho pensato al fallimento della mia impresa, al fatto che quattro mesi di dieta e un mese id preparazione fisica non fossero bastati a fare una cosa che goli anziani fanno senza problemi senza doversi preparare affatto. Durante le sei ore abbondanti della giornata ho incontrato di tutto, ragazzini, bambini, mamme, anziani e tutti sono saliti in cima e sono abbastanza sicuro di essere stato il più preparato di tutti. Non il più in forma, è evidente, però il più preparato, quello che si era dedicato maggiormente alla montagna nei mesi precedenti.
Perché scendendo allora e anche oggi, a distanza di tempo, non ricordo quella salita come una sconfitta? Perché non è stato un fallimento, perché non ricordo quel giorno con delusione? Perchè è stato facile decidere di fermarsi, accettare che non ce l'avrei fatta? Solitamente sono molto orgoglioso, non mi piace non riuscire. Anzi, di più, non mi piace cimentarmi in cose in cui non ho ragionevole certezza di riuscire. Figurarsi mesi di preparazione che non portano al successo cosa comportano. Non ho neppure l’alibi di dire “ok, ma non ero in forma, non ho avuto tempo, mi fossi preparato”. No, ero al meglio di quello che potevo essere in quel momento (certo avessi avuto sei mesi di ferie ed un personal trainer sarei stato più in forma ma per quello che mi è concesso ero al top).
Oggi ho capito. E’ stata tutta la preparazione a rendere dolce il fallimento. E’ stato il fatto che mi ero impegnato che ha reso accettabile rinunciare a 10 minuti dalla fine dopo più di 3 ore di lotta. Perché non avevo nulla di rimproverarmi, perché la performance può anche essere insufficiente ma l’allenamento è stato più che adeguato, Perché se sei sicuro di essere pronto, se ti presenti alla performance preparato puoi anche permetterti di fallire.
questo post mi fa pensare a mio padre e al suo più grande insegnamento: dai il meglio di te stessa e se il tuo meglio è 10, perfetto. Se il tuo meglio è 5, è perfetto lo stesso. Me lo avrà ripetuto non so quante volte in tutte le mie sfide di bambina e di adolescente. Oggi so accettare un risultato appena sufficiente con un sorriso perché so di essermi impegnata fino in fondo. Non è un fallimento non essere arrivati in cima, proprio come dici tu.
RispondiElimina@turista. Hai preso in pieno lo spirito. Aggiungo una cosa, arrendersi e fallite non vuol dire rinunciare. Il prossimo anno il Velo sarà ancora lì e ci riproverò.
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