Negli ultimi giorni la voglia di democrazia dell'orgoglioso popolo egiziano ha creato un po' di disagi nella loro nazione e mi ha portato a dover seguire il rimpatrio dei miei colleghi impegnati ad Alessandria e dintorni.
Non è stato facile, c'era la consapevolezza che la situazione poteva degenerare e allo stesso tempo la voglia di pensare soluzioni che avessero come unico driver la sicurezza.
In tutto questo ho perso lucidità, specialmente all'inizio, fino a quando non ho capito una cosa importante.
C'è molta differenza fra prendere una decisione e gestire una situazione.
Io non ero chiamato a prendere decisioni, ne ho condivisa una venerdì mattina presto e quella era il driver di ogni mia successiva valutazione. Le volte in cui mi si è creata ansia sono state quelle in cui non ho considerato che la decisione era già stata presa, io dovevo solo gestire questa decisione, le relazioni, le informazioni e valutare se sopraggiungevano condizioni differenti rispetto a quelle iniziali.
Bene, usciamo dalla situazione di partenza, quella legata all'Egitto.
Rimaniamo sul prendere decisioni. Per distrarmi da tutti i casini egiziani ho impegnato il mio week end in un pranzo romantico con Giulia, ore di giochi con Gaia e riflessioni sul prendere decisioni.
Ho scoperto, nei meandri del mio cervello dove risiedono esperienze e ragionamenti, che prendere decisioni è un'azione sovrastimata. Non è prendere decisioni che è complesso, è difenderle, relazionarsi con esse, capire se permangono le condizioni con cui sono state prese. Io credo che prendere decisioni sia complesso ma che "sposare" le decisioni, difenderle, portarle avanti, condividerle, spiegarle, renderla pubbliche sia il vero nodo. E questo per un motivo molto semplice.
Prendere decisioni genera ansia, semplicemente perché possono essere errate, è ovvio. Quindi deve essere un compito facile, ci sono informazioni la cui lettura ci mostra la decisione. È quello che accade dopo che è difficile, ma c'è un vantaggio, lo stress, le aspettative stanno tutte in chi prende la decisione.
Ecco perché i bravi capi devono essere solo dei decisori. Devono essersi circondati di collaboratori in grado di dare le giuste informazioni e di portare avanti correttamente le stesse. E avere su di loro l'ansia della decisione, per lasciare i collaboratori nelle condizioni di fare tutto il resto, prima e dopo la decisione, con spalle coperte e direzione chiara.
Cosekeso?
Ciao, questo è il mio blog, il blog nel quale ogni tanto svuoto la mia testa dai vari elementi che la riempiono.
Non c'è quasi nulla di originale, i miei pensieri sono rivisitazioni o rielaborazioni di quello che l'ambiente mi insegna e propone.
Se leggerai qualcosa "buona lettura", se non leggerai nulla "buona giornata"
ATTENZIONE: contiene opinioni altamente personali e variabili
Non c'è quasi nulla di originale, i miei pensieri sono rivisitazioni o rielaborazioni di quello che l'ambiente mi insegna e propone.
Se leggerai qualcosa "buona lettura", se non leggerai nulla "buona giornata"
ATTENZIONE: contiene opinioni altamente personali e variabili
Link vari ed eventuali
domenica 30 gennaio 2011
giovedì 27 gennaio 2011
Il relativismo secondo Gaia
Sono in casa, rientro da una giornata di lavoro e di lavoro su di me. Molto intenso e istruttivo.
Sono steso sul divano che cerco di fare mente locale e dalla carrozzina Gaia attira la mia attenzione.
"Cosa fai babbo?"
N:" ripenso alla giornata, cerco di capire, tu?".
G:" niente, mi interrogo sul relativismo e sui suoi danni".
A quel punto abbocco: "ah relativismo, Einstein".
G: "Non dire sciocchezze, quella è la relatività".
N: "ah, ecco, appunto".
G: "Già, vedi, sento in giro molta gente che si trincera dietro al relativismo per giustificare ogni presa di posizione".
N: "Cioè ognuno di noi si sente libero di dire la sua e di confrontarsi con gli altri".
G: "In parte. Vedo in giro molta gente che esprime la propria opinione, anche con fermezza, per non dire maleducazione, ma che non ha l'abitudine poi di argomentare e di spiegare la propria opinione. C'è molto scontro ma poco confronto".
N: " Chiaro, ma cosa c'entra il relativismo?".
G: "Centra perché ormai nessuno sente più di dover spiegare le proprie posizioni o meglio nessuno sente di dover più confrontare col mondo il proprio pensiero. Ormai, anche di fronte a confutazioni evidenti è sufficiente dire che tutto è relativo".
N: "Beh, non credo che il problema sia il relativismo, credo che sia la mancanza di abitudine al confronto".
G: "Hai ragione, ormai abbiamo talmente paura di non riuscire a difendere le nostre opinioni che preferiamo la rissa verbale".
N: "Chiaro, meglio urlare le nostre opinioni che discuterne".
G:"Abbiamo troppa paura di aver torto. Scoprire di aver torto non è una tragedia, in fin dei conti".
N: "Lo dici tu, a me aver torto non piace affatto".
G:"E perché?".
N: "Aver torto, scoprire che si credeva o pensava qualcosa di sbagliato non è bello".
G:"Questione di punti di vista".
N: "Cioè?"
G: "Tu dici che non è bello scoprire di aver torto. Resta però il fatto di scoprire di aver torto è spesso associato al venire a sapere qualcosa di vero, ad esempio".
N: "Giá, è una lettura".
G: " Il relativismo spesso tira in ballo il nostro mondo per giustificare la nostra visuale, solo che il nostro mondo non è tutto il mondo e potrebbe essere piccolo per essere vero".
N: "Ok, continuo a riflettere, se posso".
G: "Forse è meglio se prima mi cambi, credo".
N: "Ok piccolina".
Sono steso sul divano che cerco di fare mente locale e dalla carrozzina Gaia attira la mia attenzione.
"Cosa fai babbo?"
N:" ripenso alla giornata, cerco di capire, tu?".
G:" niente, mi interrogo sul relativismo e sui suoi danni".
A quel punto abbocco: "ah relativismo, Einstein".
G: "Non dire sciocchezze, quella è la relatività".
N: "ah, ecco, appunto".
G: "Già, vedi, sento in giro molta gente che si trincera dietro al relativismo per giustificare ogni presa di posizione".
N: "Cioè ognuno di noi si sente libero di dire la sua e di confrontarsi con gli altri".
G: "In parte. Vedo in giro molta gente che esprime la propria opinione, anche con fermezza, per non dire maleducazione, ma che non ha l'abitudine poi di argomentare e di spiegare la propria opinione. C'è molto scontro ma poco confronto".
N: " Chiaro, ma cosa c'entra il relativismo?".
G: "Centra perché ormai nessuno sente più di dover spiegare le proprie posizioni o meglio nessuno sente di dover più confrontare col mondo il proprio pensiero. Ormai, anche di fronte a confutazioni evidenti è sufficiente dire che tutto è relativo".
N: "Beh, non credo che il problema sia il relativismo, credo che sia la mancanza di abitudine al confronto".
G: "Hai ragione, ormai abbiamo talmente paura di non riuscire a difendere le nostre opinioni che preferiamo la rissa verbale".
N: "Chiaro, meglio urlare le nostre opinioni che discuterne".
G:"Abbiamo troppa paura di aver torto. Scoprire di aver torto non è una tragedia, in fin dei conti".
N: "Lo dici tu, a me aver torto non piace affatto".
G:"E perché?".
N: "Aver torto, scoprire che si credeva o pensava qualcosa di sbagliato non è bello".
G:"Questione di punti di vista".
N: "Cioè?"
G: "Tu dici che non è bello scoprire di aver torto. Resta però il fatto di scoprire di aver torto è spesso associato al venire a sapere qualcosa di vero, ad esempio".
N: "Giá, è una lettura".
G: " Il relativismo spesso tira in ballo il nostro mondo per giustificare la nostra visuale, solo che il nostro mondo non è tutto il mondo e potrebbe essere piccolo per essere vero".
N: "Ok, continuo a riflettere, se posso".
G: "Forse è meglio se prima mi cambi, credo".
N: "Ok piccolina".
sabato 22 gennaio 2011
Libertà di parola e dovere di intelligenza
La libertà di parola è un diritto sancito in tutte le Carte Costituzionali che si rispettino. Nella nostra, l'articolo 21 dice che Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
Dice anche altro ma sempre con lo stesso principio, more or less.
È molto famosa anche la citazione attribuita a Voltaire che dice "Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo".
Mi piace e condivido molto questa affermazione. Racchiude due principi molto importanti, la libertà di parola e la libertà di pensiero.
L'avvento di infernet e dei vari social network ha reso un po' più accessibile la libertà di parola. Ho avuto modo di parlare con un ragazzo tunisino che mi ha spiegato come la rivoluzione in atto in questi giorni sia partita su Twitter e Facebook e poi sia arrivata in strada. Lo trovo fantastico. La libertà di parola, grazie ad internet, arriva a sfidare regimi molto chiusi. Ogni tanto si legge di tentativi di arginare e censurare infernet ma si tratta di rallentare un processo che in realtà è partito e non si fermerà.
E questa è una conquista che vorrei godermi 10 secondi.
Pausa.
Anche questo spazio, ad esempio, è uno spazio di libertà che ho avuto la possibilità di ritagliarmi. E cerco di sfruttarlo con buon senso, forse troppo, ma credo che la mia libertà di parola debba andare di pari passo con la mia intelligenza di parola.
Non voglio dire che dico sempre cose intelligenti, anzi, voglio però riconoscermi il merito di non essere mai di cattivo gusto, di non approfittare dell'assenza di regole di certi spazi.
Purtroppo i modelli comunicativi che ci vengono proposti dai "professionisti" non sono sempre adeguati.
Riporto un pensiero letto oggi http://www.corriere.it/spettacoli/11_gennaio_22/grasso-che-noia-i-talk_0ab47fbc-25ee-11e0-8bad-00144f02aabc.shtml
Se i nostri modelli sono questi come facciamo ad abbinare la nostra libertà di parola alla nostra intelligenza di parola?
Non ce la facciamo. Quotidianamente leggo pensieri di persone che esprimono la loro libertà di parola vantando il fatto di poterlo fare ma perde do ogni volta credibilità di parola.
Il fatto di essere liberi di dire quello che ci pare ci espone ad un grande rischio: quello di farlo effettivamente.
Avere il diritto di farlo non ci obbliga a farlo. Anzi, dovrebbe responsabilizzarci.
Abbiamo il sacrosanto diritto di esprimere un'opinione ma dobbiamo avere la responsabilità di quello che diciamo. Ha ragione Voltaire, difenderò fino alla morte il tuo diritto di parola ma disapprovo quello che dici. Io dico sicuramente un mare di sciocchezze, posso essere sgraziato nello scrivere ma quello che dico è sempre disapprovabile ma anche difendibile. Voglio sempre usare l'art. 21 della Costituzione per dire cose che ritengo intelligenti, per me ovviamente non per l'umanità, non voglio usarlo solo perché è un mio diritto.
Ci sono persone che insultano invece che disapprovare; che offendono anziché contestare; che aggrediscono anziché confutare.
Facciamo attenzioni alle nostre libertà, sono pericolose e preziosissime.
Troppo spesso infernet porta a fenomeni di ostentazione di libertà. La libertà non è da ostentare, è da riempire di significato.
Dice anche altro ma sempre con lo stesso principio, more or less.
È molto famosa anche la citazione attribuita a Voltaire che dice "Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo".
Mi piace e condivido molto questa affermazione. Racchiude due principi molto importanti, la libertà di parola e la libertà di pensiero.
L'avvento di infernet e dei vari social network ha reso un po' più accessibile la libertà di parola. Ho avuto modo di parlare con un ragazzo tunisino che mi ha spiegato come la rivoluzione in atto in questi giorni sia partita su Twitter e Facebook e poi sia arrivata in strada. Lo trovo fantastico. La libertà di parola, grazie ad internet, arriva a sfidare regimi molto chiusi. Ogni tanto si legge di tentativi di arginare e censurare infernet ma si tratta di rallentare un processo che in realtà è partito e non si fermerà.
E questa è una conquista che vorrei godermi 10 secondi.
Pausa.
Anche questo spazio, ad esempio, è uno spazio di libertà che ho avuto la possibilità di ritagliarmi. E cerco di sfruttarlo con buon senso, forse troppo, ma credo che la mia libertà di parola debba andare di pari passo con la mia intelligenza di parola.
Non voglio dire che dico sempre cose intelligenti, anzi, voglio però riconoscermi il merito di non essere mai di cattivo gusto, di non approfittare dell'assenza di regole di certi spazi.
Purtroppo i modelli comunicativi che ci vengono proposti dai "professionisti" non sono sempre adeguati.
Riporto un pensiero letto oggi http://www.corriere.it/spettacoli/11_gennaio_22/grasso-che-noia-i-talk_0ab47fbc-25ee-11e0-8bad-00144f02aabc.shtml
Se i nostri modelli sono questi come facciamo ad abbinare la nostra libertà di parola alla nostra intelligenza di parola?
Non ce la facciamo. Quotidianamente leggo pensieri di persone che esprimono la loro libertà di parola vantando il fatto di poterlo fare ma perde do ogni volta credibilità di parola.
Il fatto di essere liberi di dire quello che ci pare ci espone ad un grande rischio: quello di farlo effettivamente.
Avere il diritto di farlo non ci obbliga a farlo. Anzi, dovrebbe responsabilizzarci.
Abbiamo il sacrosanto diritto di esprimere un'opinione ma dobbiamo avere la responsabilità di quello che diciamo. Ha ragione Voltaire, difenderò fino alla morte il tuo diritto di parola ma disapprovo quello che dici. Io dico sicuramente un mare di sciocchezze, posso essere sgraziato nello scrivere ma quello che dico è sempre disapprovabile ma anche difendibile. Voglio sempre usare l'art. 21 della Costituzione per dire cose che ritengo intelligenti, per me ovviamente non per l'umanità, non voglio usarlo solo perché è un mio diritto.
Ci sono persone che insultano invece che disapprovare; che offendono anziché contestare; che aggrediscono anziché confutare.
Facciamo attenzioni alle nostre libertà, sono pericolose e preziosissime.
Troppo spesso infernet porta a fenomeni di ostentazione di libertà. La libertà non è da ostentare, è da riempire di significato.
giovedì 20 gennaio 2011
Politici e illusionisti
“L'illusionismo è un'arte solitamente eseguita come forma di spettacolo di intrattenimento dove l'artista, comunemente detto mago o illusionista (ma sono usati anche prestigiatore ed il francesismo prestidigitatore), crea effetti apparentemente magici usando trucchi che possono essere fisici (solitamente meccanici ma anche chimici, idraulici, ottici), psicologici oppure il più delle volte il trucco sta nell'abilità di mani del prestigiatore.”
Preso pari pari da Wikipedia.
Dunque, illusionismo è quello che, a mio avviso, ha sempre fatto la politica.
Da quando il primo politico ha ritenuto che un certo tipo di informazione non fosse gestibile dai cittadini ma fosse sua diretta responsabilità gestire la cosa per il nostro bene l’illusionismo è entrato a far parte della politica.
Quindi ho come la sensazione che i politici ci facciano vedere alcune cose e ce ne celino delle altre. Noi seguiamo la mano che ci indica donnine, scandali, case aquilane consegnate, incentivi all’auto, ecc ecc mentre in realtà la politica si sta occupando di altro.
Ora, non che sia sbagliato per forza. Forse è vero che ci sono notizie, informazioni, situazioni e decisioni che il cittadino non è pronto a gestire, come individuo e, soprattutto, come massa.
Però c’è un limite.
Ho recentemente visto un film sulla crisi dei missili a Cuba e il presidente Kennedy ha tenuto per lui e per il suo staff una serie di informazioni che il popolo non avrebbe potuto gestire, specie in accordo con la strategia che si è scelta. Quindi ci può stare una certa dose di illusionismo.
In fondo “panem et circensem” lo diceva già Giovenale un po’ di tempo fa.
Però sappiamo che l’illusionista bravo, in caso di estremo rischio che venga svelato il suo trucco, anteporrà la sua incolumità al rischio. Meglio rischiare che essere scoperti. Meglio una ferita, una bruciatura, una contusione o una lussazione che far vedere il trucco.
Il trucco è prioritario.
La cosa che mi incuriosisce è sapere se questo estremo vale anche in politica. Cioè, meglio sputtanarci e parlare di donnine che parlare seriamente di FIAT, di crisi, di occupazione.
E’ meglio non svelare il trucco?
“La misdirection (direzione dell'attenzione) è una sorta di sottofondo costante di ogni buon gioco di prestigio. Essa consiste nella capacità del prestigiatore di attirare l'attenzione del pubblico solo sulle parti del gioco o della scena che egli ritiene opportune, permettendo così di sviare l'attenzione da movimenti e mosse che non devono essere viste e ricordate. In questo modo il pubblico avrà l'impressione di azioni pienamente legittime laddove in realtà sono stati realizzati dei "trucchi".”
Sempre da Wikipedia.
Quanto siamo stati disposti ad essere distratti? Quanto ci siamo fatti ingannare cercando il trucco e non trovandolo? Adesso l’illusionista è in difficoltà, il numero di prestigio non sta funzionando. Non vorrei che fosse meglio ferirsi, farsi male, tentare il raddoppio che non svelare il trucco. E non vorrei che a noi bastasse vedere il trucco salvato. Quando Houdini morì affogato tutti guardarono il corpo, la teca di vetro fu rotta con una mazzata, nessuno pensò di usare il trucco per estrarlo. Quando il mago si fa male nessuno guarda cosa ha combinato, tutti guardano sempre e solo il mago.
Preso pari pari da Wikipedia.
Dunque, illusionismo è quello che, a mio avviso, ha sempre fatto la politica.
Da quando il primo politico ha ritenuto che un certo tipo di informazione non fosse gestibile dai cittadini ma fosse sua diretta responsabilità gestire la cosa per il nostro bene l’illusionismo è entrato a far parte della politica.
Quindi ho come la sensazione che i politici ci facciano vedere alcune cose e ce ne celino delle altre. Noi seguiamo la mano che ci indica donnine, scandali, case aquilane consegnate, incentivi all’auto, ecc ecc mentre in realtà la politica si sta occupando di altro.
Ora, non che sia sbagliato per forza. Forse è vero che ci sono notizie, informazioni, situazioni e decisioni che il cittadino non è pronto a gestire, come individuo e, soprattutto, come massa.
Però c’è un limite.
Ho recentemente visto un film sulla crisi dei missili a Cuba e il presidente Kennedy ha tenuto per lui e per il suo staff una serie di informazioni che il popolo non avrebbe potuto gestire, specie in accordo con la strategia che si è scelta. Quindi ci può stare una certa dose di illusionismo.
In fondo “panem et circensem” lo diceva già Giovenale un po’ di tempo fa.
Però sappiamo che l’illusionista bravo, in caso di estremo rischio che venga svelato il suo trucco, anteporrà la sua incolumità al rischio. Meglio rischiare che essere scoperti. Meglio una ferita, una bruciatura, una contusione o una lussazione che far vedere il trucco.
Il trucco è prioritario.
La cosa che mi incuriosisce è sapere se questo estremo vale anche in politica. Cioè, meglio sputtanarci e parlare di donnine che parlare seriamente di FIAT, di crisi, di occupazione.
E’ meglio non svelare il trucco?
“La misdirection (direzione dell'attenzione) è una sorta di sottofondo costante di ogni buon gioco di prestigio. Essa consiste nella capacità del prestigiatore di attirare l'attenzione del pubblico solo sulle parti del gioco o della scena che egli ritiene opportune, permettendo così di sviare l'attenzione da movimenti e mosse che non devono essere viste e ricordate. In questo modo il pubblico avrà l'impressione di azioni pienamente legittime laddove in realtà sono stati realizzati dei "trucchi".”
Sempre da Wikipedia.
Quanto siamo stati disposti ad essere distratti? Quanto ci siamo fatti ingannare cercando il trucco e non trovandolo? Adesso l’illusionista è in difficoltà, il numero di prestigio non sta funzionando. Non vorrei che fosse meglio ferirsi, farsi male, tentare il raddoppio che non svelare il trucco. E non vorrei che a noi bastasse vedere il trucco salvato. Quando Houdini morì affogato tutti guardarono il corpo, la teca di vetro fu rotta con una mazzata, nessuno pensò di usare il trucco per estrarlo. Quando il mago si fa male nessuno guarda cosa ha combinato, tutti guardano sempre e solo il mago.
martedì 18 gennaio 2011
Ancora un pensiero di Gaia. Le opportunità
Sabato mattina Giulia era in giro e Gaia ed io ci siamo trovati in casa. Lei dormiva tranquilla in salotto ed io, steso sul divano, leggevo un libro.
Ad un certo punto attira la mia attenzione e mi fa: “Cosa leggi?”
“Un libro che parla di libri letti”, rispondo senza distogliere lo sguardo. Fa due sospiri, aspetta una trentina di secondi e fa: “Ma è interessante?”
N: “E’ scritto bene, non è particolarmente interessante ma è comunque piacevole. Forse se fossi inglese lo apprezzerei di più”.
Ancora trenta secondi e due sospiri
G: “Ah, ti vedo molto concentrato”.
N: “Già. Ma hai bisogno?”
G: “Volevo chiederti una cosa ma non vorrei rompere le balle”.
N: “Prova a dirmi”.
G: “Cosa sono le opportunità? E Perché ho sentito dire che sono come i treni che passano?”
N: “Le opportunità sono situazioni favorevoli che ci mettono nella condizione di riuscire ad ottenere risultati positivi per noi”, per la prima volta rispondo a tono e mi godo un po’ il momento.
G: “Ma ti eri preparato prima?”.
N: “No, sto guardando wikipedia col cellulare….”.
G: “Ah, ecco. Ma allora quand’è che una roba è favorevole?”
N: “Boh, credo quando siamo nelle condizioni di coglierne gli aspetti positivi”.
G: “Fermo! Ci sono”.
N: “Ok, son tutto orecchi”.
G: “Allora diciamo che ci sono una serie di condizioni generali, legate ad aspetti vari ed eventuali che si palesano davanti a noi”.
N: “Ok, detto male ma chiaro”.
G: “Non fare il fenomeno. Comunque diciamo che queste condizioni se hanno una caratteristica di positività determinano un’opportunità”.
N: “Esatto, non ti resta che capire quando le condizioni sono positive”.
G: “Ma questo è facile, è la meno”.
N: “Eh no, secondo me è lì il difficile. La definizione di opportunità si gioca proprio su quell’interpretazione”.
G: “Ribadisco che è invece l’aspetto banale”.
N: “Ma perché?”.
G: ”Perché la positività chi la stabilisce?”
N: “…….”.
G: “Chiaramente noi. Ognuno di noi ha la capacità di vedere gli aspetti positivamente. Ovvio che ci sono situazioni negative, in cui è sciocco fare come Pollyanna, ma nella maggior parte delle situazioni l’accento positivo lo possiamo vedere noi. Cioè, il difficile è avere la lucidità di cogliere tutte le condizioni di cui parlavi prima”.
N: “Non è così semplice, in realtà”.
G: “In realtà è veramente così semplice. Guarda, alle volte voi grandi mi spaventate per la vostra volontà di complicare le cose. In una situazione ci sono una serie di fattori e noi abbiamo sempre la possibilità di trovare quelli positivi, quelli che ci consentono di vedere le opportunità. In effetti la opportunità è vero che sono come treni che passano ma è vero che ogni mattina, in stazione, ci sono centinaia di treni per chi ha voglia di leggere con attenzione il tabellone. E’ così semplice da essere vero, guarda”.
N: “Hmmm, in fondo credo tu abbia ragione. Che fai, riposi un altro po’?”.
G: “No, adesso voglio capire cosa c’è di bello e positivo in giro, ho voglia di trovarmi un’opportunità”.
N: “Sei un angelo, non cambiare, mi servi così”.
G: “Tranquillo, ho preso dalla mamma”.
Ad un certo punto attira la mia attenzione e mi fa: “Cosa leggi?”
“Un libro che parla di libri letti”, rispondo senza distogliere lo sguardo. Fa due sospiri, aspetta una trentina di secondi e fa: “Ma è interessante?”
N: “E’ scritto bene, non è particolarmente interessante ma è comunque piacevole. Forse se fossi inglese lo apprezzerei di più”.
Ancora trenta secondi e due sospiri
G: “Ah, ti vedo molto concentrato”.
N: “Già. Ma hai bisogno?”
G: “Volevo chiederti una cosa ma non vorrei rompere le balle”.
N: “Prova a dirmi”.
G: “Cosa sono le opportunità? E Perché ho sentito dire che sono come i treni che passano?”
N: “Le opportunità sono situazioni favorevoli che ci mettono nella condizione di riuscire ad ottenere risultati positivi per noi”, per la prima volta rispondo a tono e mi godo un po’ il momento.
G: “Ma ti eri preparato prima?”.
N: “No, sto guardando wikipedia col cellulare….”.
G: “Ah, ecco. Ma allora quand’è che una roba è favorevole?”
N: “Boh, credo quando siamo nelle condizioni di coglierne gli aspetti positivi”.
G: “Fermo! Ci sono”.
N: “Ok, son tutto orecchi”.
G: “Allora diciamo che ci sono una serie di condizioni generali, legate ad aspetti vari ed eventuali che si palesano davanti a noi”.
N: “Ok, detto male ma chiaro”.
G: “Non fare il fenomeno. Comunque diciamo che queste condizioni se hanno una caratteristica di positività determinano un’opportunità”.
N: “Esatto, non ti resta che capire quando le condizioni sono positive”.
G: “Ma questo è facile, è la meno”.
N: “Eh no, secondo me è lì il difficile. La definizione di opportunità si gioca proprio su quell’interpretazione”.
G: “Ribadisco che è invece l’aspetto banale”.
N: “Ma perché?”.
G: ”Perché la positività chi la stabilisce?”
N: “…….”.
G: “Chiaramente noi. Ognuno di noi ha la capacità di vedere gli aspetti positivamente. Ovvio che ci sono situazioni negative, in cui è sciocco fare come Pollyanna, ma nella maggior parte delle situazioni l’accento positivo lo possiamo vedere noi. Cioè, il difficile è avere la lucidità di cogliere tutte le condizioni di cui parlavi prima”.
N: “Non è così semplice, in realtà”.
G: “In realtà è veramente così semplice. Guarda, alle volte voi grandi mi spaventate per la vostra volontà di complicare le cose. In una situazione ci sono una serie di fattori e noi abbiamo sempre la possibilità di trovare quelli positivi, quelli che ci consentono di vedere le opportunità. In effetti la opportunità è vero che sono come treni che passano ma è vero che ogni mattina, in stazione, ci sono centinaia di treni per chi ha voglia di leggere con attenzione il tabellone. E’ così semplice da essere vero, guarda”.
N: “Hmmm, in fondo credo tu abbia ragione. Che fai, riposi un altro po’?”.
G: “No, adesso voglio capire cosa c’è di bello e positivo in giro, ho voglia di trovarmi un’opportunità”.
N: “Sei un angelo, non cambiare, mi servi così”.
G: “Tranquillo, ho preso dalla mamma”.
lunedì 17 gennaio 2011
Il Re Presbite
“C’era una volta, tanto tempo fa, un Re illuminato. Era molto amato dal suo popolo per via della sua grande capacità di entusiasmarli e incoraggiarli sempre. Era molto positivo ed aveva sempre delle visioni sul futuro molto coraggiose ma allo stesso tempo coinvolgenti e motivanti.
Sapeva dove voleva portare il suo regno, l’aveva sempre saputo. I suoi sudditi lo seguivano sempre, anche quando le avversità quotidiane rendevano difficile guardare lontano come faceva lui.
Ultimamente però i suoi sudditi fedeli si erano invecchiati e non avevano più le forze di farsi carico di tutte le difficoltà che si palesavano davanti a loro nel seguire il loro re.
Avevano ormai reso splendido il regno, lo avevano dotato di ogni comodità. Avevano deviato il corso del fiume quando il loro Re gli aveva detto di sfruttare la forza dell’acqua per muovere le macine, avevano scavato tunnel profondi quando aveva detto loro che al fresco della terra avrebbero conservato meglio ogni cosa. Tutte le volte c’erano stati molti problemi ma erano stati risolti.
Adesso il Re vedeva che il suo popolo non lo seguiva più ed era triste, pensava di non riuscire più a rendere il suo regno un bel posto dove vivere. Sentiva che non stava guidando i suoi sudditi da qualche parte e sentiva che questo, alla lunga, avrebbe stancato i suoi fedeli.
In quel periodo passava molto tempo con i suoi consiglieri che gli suggerivano piani di sviluppo entusiasmanti ed idee future molto interessanti e prospere. Però vedeva che ognuna di queste opportunità non veniva colta dai suoi sudditi, vedeva in loro la stanchezza.
Gli parlava di dighe, di ponti, di semine e raccolti ma loro non avevano più le forze, mentre i giovani non avevano l’entusiasmo, spaventati dalle fatiche dei loro padri.
Alcuni cominciarono a dire che il Re non si rendeva conto, che non capiva i problemi.
Riusciva a veder ei ponti, le dighe, i mulini ma non riusciva a vedere le persone che avevano lavorato a questi progetti che erano al suo fianco. Vedeva il futuro ma non riusciva a vedere i problemi e le difficoltà per raggiungerlo…”
Probabilmente quel Re era un leader presbite, con la capacità di vedere molto lontano, di sentire il futuro e di capire quale fossero le risorse giuste per il suo popolo.
Aveva però sbagliato a scegliere dei collaboratori con il suo stesso problema.
Se, da bravo leader presbite, si fosse scelto qualche manager miope forse avrebbe trovato il giusto equilibrio.
Molto spesso è difficile avere una buona vista in ogni occasione. La freschezza che abbiamo all’inizio è difficile mantenerla e la nostra evoluzione può portarci ad essere presbiti, e perdere il contatto con il qui ed ora, o miopi, e smarrire la giusta direzione e la visione del futuro.
E’ importante, col tempo, capire quale sarà il nostro punto di debolezza e riuscire a circondarsi di persone che possano dare continuità alle nostre idee in maniera complementare.
In genere spetta ai nostri leader di identificare il giusto futuro ma è nostro compito aver scelto bene e da vicino chi saranno questi leader e saperli incoraggiare e consigliare quando ci dicono dove ci vogliono portare, cercando di essere almeno miopi.
Sapeva dove voleva portare il suo regno, l’aveva sempre saputo. I suoi sudditi lo seguivano sempre, anche quando le avversità quotidiane rendevano difficile guardare lontano come faceva lui.
Ultimamente però i suoi sudditi fedeli si erano invecchiati e non avevano più le forze di farsi carico di tutte le difficoltà che si palesavano davanti a loro nel seguire il loro re.
Avevano ormai reso splendido il regno, lo avevano dotato di ogni comodità. Avevano deviato il corso del fiume quando il loro Re gli aveva detto di sfruttare la forza dell’acqua per muovere le macine, avevano scavato tunnel profondi quando aveva detto loro che al fresco della terra avrebbero conservato meglio ogni cosa. Tutte le volte c’erano stati molti problemi ma erano stati risolti.
Adesso il Re vedeva che il suo popolo non lo seguiva più ed era triste, pensava di non riuscire più a rendere il suo regno un bel posto dove vivere. Sentiva che non stava guidando i suoi sudditi da qualche parte e sentiva che questo, alla lunga, avrebbe stancato i suoi fedeli.
In quel periodo passava molto tempo con i suoi consiglieri che gli suggerivano piani di sviluppo entusiasmanti ed idee future molto interessanti e prospere. Però vedeva che ognuna di queste opportunità non veniva colta dai suoi sudditi, vedeva in loro la stanchezza.
Gli parlava di dighe, di ponti, di semine e raccolti ma loro non avevano più le forze, mentre i giovani non avevano l’entusiasmo, spaventati dalle fatiche dei loro padri.
Alcuni cominciarono a dire che il Re non si rendeva conto, che non capiva i problemi.
Riusciva a veder ei ponti, le dighe, i mulini ma non riusciva a vedere le persone che avevano lavorato a questi progetti che erano al suo fianco. Vedeva il futuro ma non riusciva a vedere i problemi e le difficoltà per raggiungerlo…”
Probabilmente quel Re era un leader presbite, con la capacità di vedere molto lontano, di sentire il futuro e di capire quale fossero le risorse giuste per il suo popolo.
Aveva però sbagliato a scegliere dei collaboratori con il suo stesso problema.
Se, da bravo leader presbite, si fosse scelto qualche manager miope forse avrebbe trovato il giusto equilibrio.
Molto spesso è difficile avere una buona vista in ogni occasione. La freschezza che abbiamo all’inizio è difficile mantenerla e la nostra evoluzione può portarci ad essere presbiti, e perdere il contatto con il qui ed ora, o miopi, e smarrire la giusta direzione e la visione del futuro.
E’ importante, col tempo, capire quale sarà il nostro punto di debolezza e riuscire a circondarsi di persone che possano dare continuità alle nostre idee in maniera complementare.
In genere spetta ai nostri leader di identificare il giusto futuro ma è nostro compito aver scelto bene e da vicino chi saranno questi leader e saperli incoraggiare e consigliare quando ci dicono dove ci vogliono portare, cercando di essere almeno miopi.
mercoledì 12 gennaio 2011
ISO al lavoro: qualità del posto di lavoro
Giusto giusto per festeggiare i miei 33 anni stavo leggendo un articolo sulla Cina in cui viene illustrato il tentativo di importare in Cina tutti i centri di R&S delle grandi società straniere.
In pratica i cinesi si sono stancati di fare bassa manovalanza, sono convinti che facendo solo quella prsto saranno superati da altri paesi, e cercano di spostare i centri di R&S all'interno del territorio. Questo anche perchè poi i diritti sui brevetti in Cina paiono essere un po' più "sportivi". Ma non è questo il focus, altri paesi, specialmente quelli orientali, si sono mossi anche con maggiore durezza, in passato.
Importante è che la Cina voglia elevare i suoi standard.
Quindi la qualità paga?
Io credo di sì, credo che dopo un periodo iniziale di grande innamoramento siamo ora ad un livello di diffusione della qualità che spesso ce la fa dare per scontata.
E questo è un errore. Ormai siamo tutti ISO qualcosa, siamo tutti certificati ma non sappiamo cosa vuol dire. Beh, ad esempio, due dei principali costruttori di automobili mondiali sono Toyota e il gruppo Volkswagen. Ora, non stiamo parlando di realtà di alto livello che debono preservare standard elevati (come Ferrari o anche solo Mercedes), parliamo di chi al mondo vende più auto.
Entrambi i gruppi sono sinonimi di qualità, si presentano con vetture ad alta diffusione ma affidabili. Stessa cosa la si può dire per altri colossi come Apple, Ferrero (che grazie a Nutella svolge un ruolo importantissimo nel panorama delle aziende dolciarie) ma anche IKEA (la scarsa qualià di una libreria Billy è un problema di chi la monta, non del prodotto. Ovvero i prodoti IKEA hanno standard molto elevati, sono le nostre capacità di montaggio che spesso ne riducono la qualità). Questo vale anche per chi offre servizi. Google è il miglior motore di ricerca disponibile, perchè è quello fatto meglio.
C'è quindi una qualità che paga, anche su larghissima scala. Parliamo però di prodotto e/o servizio. Ma la qualità è anche processo, almeno così ci hanno insegnato.
Senza banalizzare ma cercando di rendere breve il concetto: il processo deve essere di qualità perchè deve essere stanard, ripetibile, controllato, chiaro. Ognuno deve sapere cosa fare e come, ogni persona deve essere importante ma allo stesso tempo sostituibile con serenità, perchè il processo vince.
Quindi la qualità applicata al processo serve affinchè le persone lavorino bene.
O forse non è così.
Mi è venuto in mente che la qualità importante applicata ad un processo industriale o aziendale sia da ricercarsi nella qualità della vita di chi lavora. Ovvero il lavoro fatto in qualità è sempre figlio di realtà in cui la gente lavora bene perchè sta bene al lavoro. Credo che la qualità debba centrarsi sul prodotto, debba risalire fino ad individuare un processo che renda di qualità questo prodotto ma il reale approccio deve essere sulla qualità del posto di lavoro. Ci sono realtà in cui il processo è così forte che ogni individuo può essere sostituito in pochissimo tempo ma in cui la qualità del posto di lavoro è così alta che nessun individuo ha interesse ad andarsene. La qualità deve fare anche retemption, deve aiutare le aziende a creare posti di lavoro di qualità. Solo così i lavoratori poi potranno inserirsi in una serie di processi virtuosi che portano a prodotti di qualità.
E alle volte bastano piccoli accorgimenti: BMW ha coinvolto i lavoratori di uno stabilimento per fare una valutazione ergonomica delle postazioni, sono emerse alcune proposte (tipo pedane in legno sotto le postazioni di lavoro in piedi fisse, in modo che le artciolazioni di chi lavora otto roe in piedi siano meno stressate) che hanno determinato una crescita della percezione della qualità della vita lavorativa e quindi un aumento della produttività.
In definitiva la qualità rimarrà un valore importante e lo sarà sempre più anche su larga scala. Per questp è importante che chi si occupa di processi si interesi anche di individuare soluzioni che aumentino la qualità del posto di lavoro, prima che del prodoto realizzato.
In pratica i cinesi si sono stancati di fare bassa manovalanza, sono convinti che facendo solo quella prsto saranno superati da altri paesi, e cercano di spostare i centri di R&S all'interno del territorio. Questo anche perchè poi i diritti sui brevetti in Cina paiono essere un po' più "sportivi". Ma non è questo il focus, altri paesi, specialmente quelli orientali, si sono mossi anche con maggiore durezza, in passato.
Importante è che la Cina voglia elevare i suoi standard.
Quindi la qualità paga?
Io credo di sì, credo che dopo un periodo iniziale di grande innamoramento siamo ora ad un livello di diffusione della qualità che spesso ce la fa dare per scontata.
E questo è un errore. Ormai siamo tutti ISO qualcosa, siamo tutti certificati ma non sappiamo cosa vuol dire. Beh, ad esempio, due dei principali costruttori di automobili mondiali sono Toyota e il gruppo Volkswagen. Ora, non stiamo parlando di realtà di alto livello che debono preservare standard elevati (come Ferrari o anche solo Mercedes), parliamo di chi al mondo vende più auto.
Entrambi i gruppi sono sinonimi di qualità, si presentano con vetture ad alta diffusione ma affidabili. Stessa cosa la si può dire per altri colossi come Apple, Ferrero (che grazie a Nutella svolge un ruolo importantissimo nel panorama delle aziende dolciarie) ma anche IKEA (la scarsa qualià di una libreria Billy è un problema di chi la monta, non del prodotto. Ovvero i prodoti IKEA hanno standard molto elevati, sono le nostre capacità di montaggio che spesso ne riducono la qualità). Questo vale anche per chi offre servizi. Google è il miglior motore di ricerca disponibile, perchè è quello fatto meglio.
C'è quindi una qualità che paga, anche su larghissima scala. Parliamo però di prodotto e/o servizio. Ma la qualità è anche processo, almeno così ci hanno insegnato.
Senza banalizzare ma cercando di rendere breve il concetto: il processo deve essere di qualità perchè deve essere stanard, ripetibile, controllato, chiaro. Ognuno deve sapere cosa fare e come, ogni persona deve essere importante ma allo stesso tempo sostituibile con serenità, perchè il processo vince.
Quindi la qualità applicata al processo serve affinchè le persone lavorino bene.
O forse non è così.
Mi è venuto in mente che la qualità importante applicata ad un processo industriale o aziendale sia da ricercarsi nella qualità della vita di chi lavora. Ovvero il lavoro fatto in qualità è sempre figlio di realtà in cui la gente lavora bene perchè sta bene al lavoro. Credo che la qualità debba centrarsi sul prodotto, debba risalire fino ad individuare un processo che renda di qualità questo prodotto ma il reale approccio deve essere sulla qualità del posto di lavoro. Ci sono realtà in cui il processo è così forte che ogni individuo può essere sostituito in pochissimo tempo ma in cui la qualità del posto di lavoro è così alta che nessun individuo ha interesse ad andarsene. La qualità deve fare anche retemption, deve aiutare le aziende a creare posti di lavoro di qualità. Solo così i lavoratori poi potranno inserirsi in una serie di processi virtuosi che portano a prodotti di qualità.
E alle volte bastano piccoli accorgimenti: BMW ha coinvolto i lavoratori di uno stabilimento per fare una valutazione ergonomica delle postazioni, sono emerse alcune proposte (tipo pedane in legno sotto le postazioni di lavoro in piedi fisse, in modo che le artciolazioni di chi lavora otto roe in piedi siano meno stressate) che hanno determinato una crescita della percezione della qualità della vita lavorativa e quindi un aumento della produttività.
In definitiva la qualità rimarrà un valore importante e lo sarà sempre più anche su larga scala. Per questp è importante che chi si occupa di processi si interesi anche di individuare soluzioni che aumentino la qualità del posto di lavoro, prima che del prodoto realizzato.
martedì 11 gennaio 2011
Marchionne e lo show FIAT
Ho appena finito di leggere un articolo sul corriere della sera che raccoglie una serie di commenti da parte di Marchionne, della Camusso, di Bersani e di Renzi.
Siamo in un momento che pare cruciale per la fabbrica Italia. Fiat è da sempre driver per tutti i rinnovi contrattuali, purtroppo aggiungerei io.
Purtroppo perché Fiat è un carrozzone anacronistico, figlio di tante Italie passate e dal quale ora non possiamo più prescindere.
E non lo vogliamo neanche cambiare. È evidente come certi schemi, certe realtà, certe lotte non appartengano più alla nostra quotidianità. Ormai Fiat non è più la più grande realtà industriale italiana, è l'unica.
Ovviamente non è vero.
Attualmente c'è il tentativo di rinnovarla e la paura di farlo.
La paura di perdere un museo. Quando sento parlare di Fiat mi sembra di parlare di una messainsegna, di uno spettacolo produttivo per il quale noi paghiamo il biglietto (con i vari aiuti) ma dal quale ci aspettiamo che continui ad uscire fumo dal camino, niente più. Marchionne sta ottenendo dei risultati. È vero, lo sta facendo grazie agli aiuti che lo stato gli ha dato. Ma per Fiat è sempre stato così, la differenza è che adesso si vuole provare a cambiare. Il cambiamento spaventa ma credo che se guardiamo avanti dobbiamo essere consci che il sistema industriale Italia non può reggere il confronto con i paesi in via di sviluppo. A meno che.....non cambi qualcosa.
Mi piace quello che dice Renzi, si vede che è persona giovane che dovrà vivere nell'italia che si sforza di costruire. Non è persona, da quel che intuisco, che se ne frega del risultato di quello che fa o che dice. Non è così per gli altri.
La paura che vedo in tutti è che lo spettacolo chiuda. Siamo pronti ad accollarci i costi di uno spettacolo ormai in disuso piuttosto che rischiare di cavarcene un buono show.
Magari non funzionerà o peggio, magari Marchionne vuole solo svuotare completamente l'Italia. Però se guardiamo avanti, se alziamo la testa da quello che vediamo ora non ci può mancare il coraggio di cambiare.
Certo dobbiamo vedere tutelati i lavoratori, dobbiamo preserva un patrimonio nostro che è cruciale per l'Italia nazione. Fiat e che vi lavora e lavorato ha fatto l'Italia e l'ha anche fatta circolare. Però non dobbiamo essere riconoscenti ad un sistema se questo è datato, dobbiamo avere il coraggio di andare oltre, di cambiario o almeno di procacci. Vedere il fumo che esce dal camino di Mirafiori non ci può confortare, non ci deve BASTARE! Abbiamo le possibilità di fare di più e pare che alla guida ci sia qualcuno col coraggio di provarci. Magari si sbaglierà ma quello che non è stato fatto fino ad oggi è altrettanto grave e pericoloso per i lavoratori.
Siamo in un momento che pare cruciale per la fabbrica Italia. Fiat è da sempre driver per tutti i rinnovi contrattuali, purtroppo aggiungerei io.
Purtroppo perché Fiat è un carrozzone anacronistico, figlio di tante Italie passate e dal quale ora non possiamo più prescindere.
E non lo vogliamo neanche cambiare. È evidente come certi schemi, certe realtà, certe lotte non appartengano più alla nostra quotidianità. Ormai Fiat non è più la più grande realtà industriale italiana, è l'unica.
Ovviamente non è vero.
Attualmente c'è il tentativo di rinnovarla e la paura di farlo.
La paura di perdere un museo. Quando sento parlare di Fiat mi sembra di parlare di una messainsegna, di uno spettacolo produttivo per il quale noi paghiamo il biglietto (con i vari aiuti) ma dal quale ci aspettiamo che continui ad uscire fumo dal camino, niente più. Marchionne sta ottenendo dei risultati. È vero, lo sta facendo grazie agli aiuti che lo stato gli ha dato. Ma per Fiat è sempre stato così, la differenza è che adesso si vuole provare a cambiare. Il cambiamento spaventa ma credo che se guardiamo avanti dobbiamo essere consci che il sistema industriale Italia non può reggere il confronto con i paesi in via di sviluppo. A meno che.....non cambi qualcosa.
Mi piace quello che dice Renzi, si vede che è persona giovane che dovrà vivere nell'italia che si sforza di costruire. Non è persona, da quel che intuisco, che se ne frega del risultato di quello che fa o che dice. Non è così per gli altri.
La paura che vedo in tutti è che lo spettacolo chiuda. Siamo pronti ad accollarci i costi di uno spettacolo ormai in disuso piuttosto che rischiare di cavarcene un buono show.
Magari non funzionerà o peggio, magari Marchionne vuole solo svuotare completamente l'Italia. Però se guardiamo avanti, se alziamo la testa da quello che vediamo ora non ci può mancare il coraggio di cambiare.
Certo dobbiamo vedere tutelati i lavoratori, dobbiamo preserva un patrimonio nostro che è cruciale per l'Italia nazione. Fiat e che vi lavora e lavorato ha fatto l'Italia e l'ha anche fatta circolare. Però non dobbiamo essere riconoscenti ad un sistema se questo è datato, dobbiamo avere il coraggio di andare oltre, di cambiario o almeno di procacci. Vedere il fumo che esce dal camino di Mirafiori non ci può confortare, non ci deve BASTARE! Abbiamo le possibilità di fare di più e pare che alla guida ci sia qualcuno col coraggio di provarci. Magari si sbaglierà ma quello che non è stato fatto fino ad oggi è altrettanto grave e pericoloso per i lavoratori.
sabato 8 gennaio 2011
La domanda di Gaia sul buon senso
Questa mattina, con due giorni di ritardo, abbiamo disfatto l’albero.
Io ho tolto e riposto le palline, smontato e ripiegato i rami, mentre Giulia si è occupata degli addobbi e di pulire una volta sgombrato il campo.
Ecco, in questo preciso istante sento l’ aspirapolvere in salotto e io sono con Gaia e il PC.
Avevo deciso di collegarmi a qualche configuratore di auto o moto per giocare un po’ ma, prima ancora che il sito MINI si caricasse, Gaia mi fa: “cos’è il buon senso?”
Comincio a rispondere, sicuro e deciso, dato che parlo continuamente di buon senso, ma la bocca mi rimane spalancata senza che escano parole.
Ne approfitto per adottare la tecnica camuffamento dei genitori e le dico che avremmo guardato assieme su internet, perché così poteva imparare qualcosa.
Quindi mi appresto a mettere su Google le parole buon senso, a googlearla, come si suol dire.
Le leggo quello che è riportato su wikipedia “Buon senso è la capacità di ascoltare le argomentazioni degli altri utenti, nella ricerca di un punto di convergenza - anche attorno a temi di particolare complessità - raggiungibile solamente con la ragione e la pacata discussione.” (http://it.wikipedia.org/wiki/Wikipedia:Buon_senso) Ci pensiamo un attimo ma non ci soddisfa
G: “mi sembra poco e poi direi che è riduttivo”.
N: “anche secondo me, manca qualcosa”.
G: “da quello che ho capito il buon senso è assoluto, non solo relativo al confronto con gli altri. Capisco che noi siamo inseriti all’interno di una società e quindi il buon senso sia un valore comunitario e non individuale, ma ritengo che ognuno lo esprima a prescindere dal confronto con gli altri, non è solo la ricerca di un punto di convergenza. Anzi, non sono neppure convinta sia un valore, ho in mente un’altra idea ma prima leggi se dice altro”.
N: “sì, proviamo se troviamo altro, non è un concetto così facile”.
G: “già, pensiamo tutti di averne ma non sappiamo definirlo.”
N: “senti questa, sempre da Wikipedia”
Il buon senso è l'insieme delle considerazioni utilizzate dall'uomo per valutare la realtà ed esprimere i propri giudizi sui problemi della vita, mantenendo un atteggiamento equilibrato. In Filosofia il buonsenso è la capacità di identificare la verità in modo immediato, così come essa si presenta nella esperienza di vita ordinaria. Il buonsenso diviene senso comune quando i suoi giudizi accomunano, per usare le parole di Giambattista Vico, "tutto un ordine, tutto un popolo, tutta una nazione o tutto il genere umano".
G: “non male, devo dire che la seconda parte mi ha annoiato ma mi piace l’idea che il buon senso sia uno strumento. E’ l’insieme delle considerazioni utilizzate. Quindi possiamo dire che è un insieme di valori, ma forse no”.
N: “no, non solo, il buon senso secondo me deve avere un’accezione operativa, applicativa, cioè si ha buon senso nel momento in cui si fa qualcosa, nel momento in cui si è attivi verso una situazione”.
G: “sì, ho capito cosa vuoi dire, in effetti se diciamo che è uno strumento diciamo implicitamente che vada utilizzato. Hmmmm”
N: “che c’è?”
G: “mentre parlavi ho scorso i risultati successivi della ricerca e sai che non c’è grande accordo sul senso di buon senso. Anche sulla stessa Wikipedia ci sono discussioni al riguardo. Sai quale credo sia il problema?”.
N: “no, ovviamente”.
G: “credo che la definizione di buon senso non sia così filosoficamente complessa e allora non soddisfi nessuno. Credo che ci troviamo in uno di quei casi in cui la facilità e la semplicità non soddisfano”.
N: “Hmmmm”
G: “è evidente, il buon senso è una cosa che tutti pensiamo di avere, che tutti riteniamo importante, nessuno ha mai detto che preferisce chi non ne ha…”
N: “in effetti”
G: “bene, un concetto così semplice deve avere una definizione brillante e suggestiva”.
N: “immagino tu possa avere ragione. Quindi, cosa vogliamo fare?“
G: “ho trovato un esempio per spiegare bene cosa si intende”.
N: “sentiamo”.
G: “allora, quando vediamo uno che deve attraversare a piedi una strada e si butta in mezzo alla corsia pensando che tanto lui è sulle strisce abbiamo davanti una persona che non ha buon senso”.
N: “funziona, ma non spieghi uno che ha buon senso, spieghi uno che non ne ha”.
G: “già, ma adesso anche tu ti focalizzi sulla spiegazione e non sul concetto. Non importa come, l’importante è che abbia reso l’idea, io sono piccola, mi importa capire le cose, non che mi siano spiegate in maniera intelligente. Riproviamo, vedrai che funziona. Babbo, cos’è il buon senso?”.
N: “ah, dunque. Allora, hai presente quando uno deve attraversare a piedi una strada e si butta in mezzo alla corsia pensando che tanto lui è sulle strisce e in caso di incidente ha ragione? Ecco, abbiamo davanti una persona che non ha buon senso”.
G: “grazie, molto chiaro. Adesso schiaccio un pisolino serena”.
N: “sognidoro piccolina”.
Io ho tolto e riposto le palline, smontato e ripiegato i rami, mentre Giulia si è occupata degli addobbi e di pulire una volta sgombrato il campo.
Ecco, in questo preciso istante sento l’ aspirapolvere in salotto e io sono con Gaia e il PC.
Avevo deciso di collegarmi a qualche configuratore di auto o moto per giocare un po’ ma, prima ancora che il sito MINI si caricasse, Gaia mi fa: “cos’è il buon senso?”
Comincio a rispondere, sicuro e deciso, dato che parlo continuamente di buon senso, ma la bocca mi rimane spalancata senza che escano parole.
Ne approfitto per adottare la tecnica camuffamento dei genitori e le dico che avremmo guardato assieme su internet, perché così poteva imparare qualcosa.
Quindi mi appresto a mettere su Google le parole buon senso, a googlearla, come si suol dire.
Le leggo quello che è riportato su wikipedia “Buon senso è la capacità di ascoltare le argomentazioni degli altri utenti, nella ricerca di un punto di convergenza - anche attorno a temi di particolare complessità - raggiungibile solamente con la ragione e la pacata discussione.” (http://it.wikipedia.org/wiki/Wikipedia:Buon_senso) Ci pensiamo un attimo ma non ci soddisfa
G: “mi sembra poco e poi direi che è riduttivo”.
N: “anche secondo me, manca qualcosa”.
G: “da quello che ho capito il buon senso è assoluto, non solo relativo al confronto con gli altri. Capisco che noi siamo inseriti all’interno di una società e quindi il buon senso sia un valore comunitario e non individuale, ma ritengo che ognuno lo esprima a prescindere dal confronto con gli altri, non è solo la ricerca di un punto di convergenza. Anzi, non sono neppure convinta sia un valore, ho in mente un’altra idea ma prima leggi se dice altro”.
N: “sì, proviamo se troviamo altro, non è un concetto così facile”.
G: “già, pensiamo tutti di averne ma non sappiamo definirlo.”
N: “senti questa, sempre da Wikipedia”
Il buon senso è l'insieme delle considerazioni utilizzate dall'uomo per valutare la realtà ed esprimere i propri giudizi sui problemi della vita, mantenendo un atteggiamento equilibrato. In Filosofia il buonsenso è la capacità di identificare la verità in modo immediato, così come essa si presenta nella esperienza di vita ordinaria. Il buonsenso diviene senso comune quando i suoi giudizi accomunano, per usare le parole di Giambattista Vico, "tutto un ordine, tutto un popolo, tutta una nazione o tutto il genere umano".
G: “non male, devo dire che la seconda parte mi ha annoiato ma mi piace l’idea che il buon senso sia uno strumento. E’ l’insieme delle considerazioni utilizzate. Quindi possiamo dire che è un insieme di valori, ma forse no”.
N: “no, non solo, il buon senso secondo me deve avere un’accezione operativa, applicativa, cioè si ha buon senso nel momento in cui si fa qualcosa, nel momento in cui si è attivi verso una situazione”.
G: “sì, ho capito cosa vuoi dire, in effetti se diciamo che è uno strumento diciamo implicitamente che vada utilizzato. Hmmmm”
N: “che c’è?”
G: “mentre parlavi ho scorso i risultati successivi della ricerca e sai che non c’è grande accordo sul senso di buon senso. Anche sulla stessa Wikipedia ci sono discussioni al riguardo. Sai quale credo sia il problema?”.
N: “no, ovviamente”.
G: “credo che la definizione di buon senso non sia così filosoficamente complessa e allora non soddisfi nessuno. Credo che ci troviamo in uno di quei casi in cui la facilità e la semplicità non soddisfano”.
N: “Hmmmm”
G: “è evidente, il buon senso è una cosa che tutti pensiamo di avere, che tutti riteniamo importante, nessuno ha mai detto che preferisce chi non ne ha…”
N: “in effetti”
G: “bene, un concetto così semplice deve avere una definizione brillante e suggestiva”.
N: “immagino tu possa avere ragione. Quindi, cosa vogliamo fare?“
G: “ho trovato un esempio per spiegare bene cosa si intende”.
N: “sentiamo”.
G: “allora, quando vediamo uno che deve attraversare a piedi una strada e si butta in mezzo alla corsia pensando che tanto lui è sulle strisce abbiamo davanti una persona che non ha buon senso”.
N: “funziona, ma non spieghi uno che ha buon senso, spieghi uno che non ne ha”.
G: “già, ma adesso anche tu ti focalizzi sulla spiegazione e non sul concetto. Non importa come, l’importante è che abbia reso l’idea, io sono piccola, mi importa capire le cose, non che mi siano spiegate in maniera intelligente. Riproviamo, vedrai che funziona. Babbo, cos’è il buon senso?”.
N: “ah, dunque. Allora, hai presente quando uno deve attraversare a piedi una strada e si butta in mezzo alla corsia pensando che tanto lui è sulle strisce e in caso di incidente ha ragione? Ecco, abbiamo davanti una persona che non ha buon senso”.
G: “grazie, molto chiaro. Adesso schiaccio un pisolino serena”.
N: “sognidoro piccolina”.
venerdì 7 gennaio 2011
Quando una legge fallisce?
A cosa servono le leggi? Le leggi, per come l'ho capita io, servono perché in una società convivono molti individui con molteplici interessi e le leggi sono il mezzo per garantire a tutti equità di "spazi" nel perseguire tali interessi.
Sicuramente c'è chi è più preciso di me nel dare questa definizione ma ritengo che il senso non sia molto distante dalla mia percezione. Poi diciamo che alcune leggi hanno lo scopo di raccogliere i fondi che lo stato usa per offrire servizi.
Quindi io sono inserito in una società regolata da leggi che mi mettono in condizioni di perseguire i miei obbiettivi senza che questa mia foga realizzatrice leda gli spazi e le libertà altrui. Più la società è complessa e più leggi ci sono. Questo per coprire mille sfumature. Ecco perché i cittadini non conoscono tutte le leggi, perché non operano in tutti i contesti che queste devono coprire.
Bene, mi dicono che la certezza della pena è la conditio sine qua non perché le leggi siano rispettate. Questo lo si capisce bene a tre anni, la prima volta che la si fa franca con la mamma e si capisce che la si farà franca altre volte, da lì in avanti, anche se veniamo sorpresi in flagrante. In realtà, più che la mamma sono i nonni a farci provare il brivido di farla franca, in genere.
Fatte queste premesse mi trovavo questa mattina a riflettere, mentre spingevo la carrozzina con Gaia che dormiva, su quand'è che una legge fallisce.
Ho riflettuto che il problema non è solo la certezza della pena o un caso non previsto dal legislatore o il fatto che le forze preposte non siano a sufficienza per perseguire tutti i colpevoli.
No, ho riflettuto che il vero problema si presenta in un altro caso.
Il problema è quando qualcuno tratta una legge, e la relativa pena, come un rischio accettabile.
Prendiamo i reati di tipo amministrativo, non reati penali.
Quante volte sentiamo di imprenditori, aziende, CdA che prendono in considerazione una eventuale condanna e/o sanzione come un rischio manageriale?
Sinceramente, sentire che un imprenditore lombardo, veneto o romano valuta una pena un rischio accettabile è per me il vero dramma. In quel preciso istante la legge fallisce, quando qualcuno non considera più quello che fa un crimine ma soltanto una strategia con un certo livello di rischio. Questo accade non solo e non sempre perché abbiamo di fronte persone spietate, accade anche perché forse alcune leggi non hanno lo scopo di cui accennavo all'inizio. Già, esistono leggi che hanno lo scopo di mettere lo Stato in condizioni di offrire servizi. Le tasse, ad esempio, hanno lo scopo di creare un portafoglio per lo Stato. Beh, se qualcuno valuta l'opportunità di evadere le tasse per avere un tornaconto assumendosi il rischio di essere beccato, significa che anche queste hanno fallito.
L'atteggiamento, come sempre, fa la differenza. Non rispettare le leggi per necessità, per disperazione, per occasioni sbagliate è un problema con cui la società si confronta quotidianamente, non rispettare le leggi per calcolata necessità è un fallimento ed un dramma sociale.
In questi giorni a Ravenna verrà il Presidente Napolitano, mi piacerebbe avesse anche lui in mente questa situzione.
Sicuramente c'è chi è più preciso di me nel dare questa definizione ma ritengo che il senso non sia molto distante dalla mia percezione. Poi diciamo che alcune leggi hanno lo scopo di raccogliere i fondi che lo stato usa per offrire servizi.
Quindi io sono inserito in una società regolata da leggi che mi mettono in condizioni di perseguire i miei obbiettivi senza che questa mia foga realizzatrice leda gli spazi e le libertà altrui. Più la società è complessa e più leggi ci sono. Questo per coprire mille sfumature. Ecco perché i cittadini non conoscono tutte le leggi, perché non operano in tutti i contesti che queste devono coprire.
Bene, mi dicono che la certezza della pena è la conditio sine qua non perché le leggi siano rispettate. Questo lo si capisce bene a tre anni, la prima volta che la si fa franca con la mamma e si capisce che la si farà franca altre volte, da lì in avanti, anche se veniamo sorpresi in flagrante. In realtà, più che la mamma sono i nonni a farci provare il brivido di farla franca, in genere.
Fatte queste premesse mi trovavo questa mattina a riflettere, mentre spingevo la carrozzina con Gaia che dormiva, su quand'è che una legge fallisce.
Ho riflettuto che il problema non è solo la certezza della pena o un caso non previsto dal legislatore o il fatto che le forze preposte non siano a sufficienza per perseguire tutti i colpevoli.
No, ho riflettuto che il vero problema si presenta in un altro caso.
Il problema è quando qualcuno tratta una legge, e la relativa pena, come un rischio accettabile.
Prendiamo i reati di tipo amministrativo, non reati penali.
Quante volte sentiamo di imprenditori, aziende, CdA che prendono in considerazione una eventuale condanna e/o sanzione come un rischio manageriale?
Sinceramente, sentire che un imprenditore lombardo, veneto o romano valuta una pena un rischio accettabile è per me il vero dramma. In quel preciso istante la legge fallisce, quando qualcuno non considera più quello che fa un crimine ma soltanto una strategia con un certo livello di rischio. Questo accade non solo e non sempre perché abbiamo di fronte persone spietate, accade anche perché forse alcune leggi non hanno lo scopo di cui accennavo all'inizio. Già, esistono leggi che hanno lo scopo di mettere lo Stato in condizioni di offrire servizi. Le tasse, ad esempio, hanno lo scopo di creare un portafoglio per lo Stato. Beh, se qualcuno valuta l'opportunità di evadere le tasse per avere un tornaconto assumendosi il rischio di essere beccato, significa che anche queste hanno fallito.
L'atteggiamento, come sempre, fa la differenza. Non rispettare le leggi per necessità, per disperazione, per occasioni sbagliate è un problema con cui la società si confronta quotidianamente, non rispettare le leggi per calcolata necessità è un fallimento ed un dramma sociale.
In questi giorni a Ravenna verrà il Presidente Napolitano, mi piacerebbe avesse anche lui in mente questa situzione.
lunedì 3 gennaio 2011
Gaia ed un nuovo dialogo sulla felicità. Quarto scambio di idee con mia figlia
Mia figlia apparterrà a quella generazione nata con il pc. Come già detto, io l’ho conosciuto quando avevo una decina d’anni ed era un affare che stava in una stanza nel magazzino di mio babbo e che alimentava uno schermo nero con caratteri verdi.
Ma non è su questo che volevo tornare.
Questo Natale, approfittando del nuovo vassoio porta PC a fianco del divano, Gaia ha letto un mio post sull’ottimismo e dopo cena mi ha esposto un paio di suoi ragionamenti.
G: “Ohi babbo, prima leggevo sul pc della mamma il tuo posto sull’ottimismo”.
N: “Piaciuto?”.
G: “Non c’è male, volevo però fare un commento solo che non arrivo a digitare i tasti QWERTYUIOP perché ho le braccia troppo corte e allora te lo dico a voce”.
N: “eh eh eh certo, dimmi pure”.
G: “Niente, ragionavo sul collegamento fra ottimismo e felicità”.
N: “Immediato, direi”.
G: “Sì, sì, ma fammi finire una volta”.
N: “Ok, ok, scusami”.
G: “Ragionavo su cosa compone la felicità”.
N: “Ammazzate, mangiato pesante?”.
G: “Io no, tu pare di sì. Comunque mi sentirei di dire che la felicità si compone di libertà e di autodeterminazione. Ovvero noi siamo felici quando possiamo fare e crediamo di poter riuscire in qualcosa. E queste sono anche componenti dell’ottimismo.”
N: “Mi sfugge un po’ l’autodeterminazione, mi spieghi”.
G: “Mi verrebbe da dire, grazie per la domanda. Comunque, il senso, a grandi linee è questo: cos’è che maggiormente influenza il nostro ottimismo e la nostra felicità?”.
N: “Forse non mi metti a fuoco perché sono a più di 40 cm da te ma ho la faccia a punto interrogativo”.
G: “Lo sentivo dal respiro. Comunque, riformulo la domanda: qual è la persona con cui ci confrontiamo di più sulle nostre questioni private, che conosce ogni nostro stato d’animo, che ci suggerisce ogni lettura delle situazioni che ci sono attorno?”
N: “La mamma?!”.
G: “Ma lascia stare!!!!!! Siamo noi stessi, la persona con cui ci confrontiamo su tutto siamo noi stessi.”
N: “Era la mia seconda opzione, giuro”.
G: “Ok, bravissimo. Comunque, se da noi stessi non ci scappi neppure se sei Eddy Merxx, come diceva Ligabue, allora siamo noi gli unici veri veicoli della nostra felicità. Solo noi possiamo dare una lettura negativa alle situazioni che affrontiamo. Cioè, non solo noi, ma gli episodi in cui noi possiamo esserne direttamente responsabili sono la maggior parte”.
N: “Interessante, quindi dici che l’ottimismo e la felicità si autodeterminano perché noi siamo la persona con cui abbiamo più a che fare, se ho ben capito”.
G: “Mio babbo è un genio”.
N: “Ehi piccola, attenta”.
G: “Perdono. Comunque sulla felicità ho pensato che è talmente tanto impalpabile che l’unico vero agente su cui è possibile agire siamo noi stessi, il nostro approccio”.
N: “Impalpabile?”
G: “Certo, ti faccio alcune domande, La felicità è oggi o domani?”
N: “Oggi e domani”.
G: “La felicità è vita in diretta o progetto di vita”
N: “Entrambe”.
G: “L’attesa della felicità è meglio della felicità stessa?”
N: “In alcuni casi direi proprio di sì”.
G: “Ultima, la felicità è egosita?”
N: “Beh, direi di sì”.
G: “Sicuro, se io sono felice tu sei…..”
N: “Felice”
G: “Ecco vedi.”
N: “Hai ragione, però non vedo il nesso”.
G: “Ripensa alle domande, la felicità è tutto e anche il suo contrario, abbiamo detto che in alcuni casi un evento che ci porta felicità è addirittura meno bello della sua attesa. La felicità non è identificabile, è oggettiva in alcuni casi ma soggettiva sempre.”
N: “In effetti”.
G: “Quindi la felicità è qualcosa che è nostra, ci appartiene, è legata alla nostra libertà e solo noi possiamo esserne partecipi e fautori.”
N: “Grazie, mi piace, lo terrò presente nel corso dell’anno”.
G: “Un’ultima cosa, la felicità è pervasiva, è per questo che quando torni a casa e ti vedo sorrido ed è per questo che quando mi vedi sorridere diventi felice al limite dello scemo”.
N: “Grazie piccolina.”
Al termine della chiacchierata Gaia si è addormentata ma prima mi ha consigliato di leggere alcuni scritti di uno psicologo che parla di felicità, per chi fosse interessato è Tal Ben-Shahar
Ma non è su questo che volevo tornare.
Questo Natale, approfittando del nuovo vassoio porta PC a fianco del divano, Gaia ha letto un mio post sull’ottimismo e dopo cena mi ha esposto un paio di suoi ragionamenti.
G: “Ohi babbo, prima leggevo sul pc della mamma il tuo posto sull’ottimismo”.
N: “Piaciuto?”.
G: “Non c’è male, volevo però fare un commento solo che non arrivo a digitare i tasti QWERTYUIOP perché ho le braccia troppo corte e allora te lo dico a voce”.
N: “eh eh eh certo, dimmi pure”.
G: “Niente, ragionavo sul collegamento fra ottimismo e felicità”.
N: “Immediato, direi”.
G: “Sì, sì, ma fammi finire una volta”.
N: “Ok, ok, scusami”.
G: “Ragionavo su cosa compone la felicità”.
N: “Ammazzate, mangiato pesante?”.
G: “Io no, tu pare di sì. Comunque mi sentirei di dire che la felicità si compone di libertà e di autodeterminazione. Ovvero noi siamo felici quando possiamo fare e crediamo di poter riuscire in qualcosa. E queste sono anche componenti dell’ottimismo.”
N: “Mi sfugge un po’ l’autodeterminazione, mi spieghi”.
G: “Mi verrebbe da dire, grazie per la domanda. Comunque, il senso, a grandi linee è questo: cos’è che maggiormente influenza il nostro ottimismo e la nostra felicità?”.
N: “Forse non mi metti a fuoco perché sono a più di 40 cm da te ma ho la faccia a punto interrogativo”.
G: “Lo sentivo dal respiro. Comunque, riformulo la domanda: qual è la persona con cui ci confrontiamo di più sulle nostre questioni private, che conosce ogni nostro stato d’animo, che ci suggerisce ogni lettura delle situazioni che ci sono attorno?”
N: “La mamma?!”.
G: “Ma lascia stare!!!!!! Siamo noi stessi, la persona con cui ci confrontiamo su tutto siamo noi stessi.”
N: “Era la mia seconda opzione, giuro”.
G: “Ok, bravissimo. Comunque, se da noi stessi non ci scappi neppure se sei Eddy Merxx, come diceva Ligabue, allora siamo noi gli unici veri veicoli della nostra felicità. Solo noi possiamo dare una lettura negativa alle situazioni che affrontiamo. Cioè, non solo noi, ma gli episodi in cui noi possiamo esserne direttamente responsabili sono la maggior parte”.
N: “Interessante, quindi dici che l’ottimismo e la felicità si autodeterminano perché noi siamo la persona con cui abbiamo più a che fare, se ho ben capito”.
G: “Mio babbo è un genio”.
N: “Ehi piccola, attenta”.
G: “Perdono. Comunque sulla felicità ho pensato che è talmente tanto impalpabile che l’unico vero agente su cui è possibile agire siamo noi stessi, il nostro approccio”.
N: “Impalpabile?”
G: “Certo, ti faccio alcune domande, La felicità è oggi o domani?”
N: “Oggi e domani”.
G: “La felicità è vita in diretta o progetto di vita”
N: “Entrambe”.
G: “L’attesa della felicità è meglio della felicità stessa?”
N: “In alcuni casi direi proprio di sì”.
G: “Ultima, la felicità è egosita?”
N: “Beh, direi di sì”.
G: “Sicuro, se io sono felice tu sei…..”
N: “Felice”
G: “Ecco vedi.”
N: “Hai ragione, però non vedo il nesso”.
G: “Ripensa alle domande, la felicità è tutto e anche il suo contrario, abbiamo detto che in alcuni casi un evento che ci porta felicità è addirittura meno bello della sua attesa. La felicità non è identificabile, è oggettiva in alcuni casi ma soggettiva sempre.”
N: “In effetti”.
G: “Quindi la felicità è qualcosa che è nostra, ci appartiene, è legata alla nostra libertà e solo noi possiamo esserne partecipi e fautori.”
N: “Grazie, mi piace, lo terrò presente nel corso dell’anno”.
G: “Un’ultima cosa, la felicità è pervasiva, è per questo che quando torni a casa e ti vedo sorrido ed è per questo che quando mi vedi sorridere diventi felice al limite dello scemo”.
N: “Grazie piccolina.”
Al termine della chiacchierata Gaia si è addormentata ma prima mi ha consigliato di leggere alcuni scritti di uno psicologo che parla di felicità, per chi fosse interessato è Tal Ben-Shahar
sabato 1 gennaio 2011
Un regalo del 2010
Allora,finalmente è arrivato il 2011, quello che era ieri adesso è finalmente l'anno scorso.
Mi porto dietro un ricordo stupendo del 2010 ed è sicuramente dovuto a mia figlia, Gaia.
Se provo a tenere un po' distante la luce che lei getta sui miei ricordi mi rendo conto che il 2010 non è stato un anno facile.
I primi sei messi mi hanno messo alla prova, sfidato in ogni campo. Ho vissuto in apnea i primi mesi della gravidanza e prima ancora le difficoltà iniziali; ho accumulato problemi e tensioni al lavoro; ho dovuto affrontare amicizie che invecchiavano in maniera inattesa.
Sono stati mesi che, rivisti oggi, fanno ancora paura, nonostante siano passati. Allora cos' è successo, perché mi mancherà il 2010? Forse perché tutto è andato per il meglio? No, non è successo, ho sbagliato, fallito, ritentato. Non è stato un anno perfetto e facile.
Però è stato l'anno del possibile, l'anno in cui tutto è stato alla mia portata. L'anno di questa nuova consapevolezza. Fra l'altro tutto questo lo vedo anche attorno a me, negli amici alle prese con la loro quotidianità e le mie stesse difficoltà e ansie, nella società in cui siamo, nella mia azienda, fra i colleghi, nelle mie passioni.
È stato un anno intenso, tosto, un anno in cui la crisi è diventata matura, ad esempio. Però è l'anno del possibile.
Vorrei che a mia figlia arrivasse questa convinzione.
Vorrei che non avesse mai dubbi sul fatto che quello che ci serve è sempre abbastanza vicino e che la nostra felicità è sempre a portata di mano.
Questo 2010 mi ha regalato questo, coi suoi momenti splendidi, con le sue difficoltà, coi suoi momenti di sconforto e di stress, coi suoi trionfi e successi. Me li porterò con me.
Così, questo inizio di nuovo anno, con la sua energia neonatale mi spinge ad avere finalmente pochi propositi ma molto, molto buoni.
Buon 2011, con l'augurio che ogni vostra battaglia vi veda soddisfatti alla fine e felici alla sera.
Mi porto dietro un ricordo stupendo del 2010 ed è sicuramente dovuto a mia figlia, Gaia.
Se provo a tenere un po' distante la luce che lei getta sui miei ricordi mi rendo conto che il 2010 non è stato un anno facile.
I primi sei messi mi hanno messo alla prova, sfidato in ogni campo. Ho vissuto in apnea i primi mesi della gravidanza e prima ancora le difficoltà iniziali; ho accumulato problemi e tensioni al lavoro; ho dovuto affrontare amicizie che invecchiavano in maniera inattesa.
Sono stati mesi che, rivisti oggi, fanno ancora paura, nonostante siano passati. Allora cos' è successo, perché mi mancherà il 2010? Forse perché tutto è andato per il meglio? No, non è successo, ho sbagliato, fallito, ritentato. Non è stato un anno perfetto e facile.
Però è stato l'anno del possibile, l'anno in cui tutto è stato alla mia portata. L'anno di questa nuova consapevolezza. Fra l'altro tutto questo lo vedo anche attorno a me, negli amici alle prese con la loro quotidianità e le mie stesse difficoltà e ansie, nella società in cui siamo, nella mia azienda, fra i colleghi, nelle mie passioni.
È stato un anno intenso, tosto, un anno in cui la crisi è diventata matura, ad esempio. Però è l'anno del possibile.
Vorrei che a mia figlia arrivasse questa convinzione.
Vorrei che non avesse mai dubbi sul fatto che quello che ci serve è sempre abbastanza vicino e che la nostra felicità è sempre a portata di mano.
Questo 2010 mi ha regalato questo, coi suoi momenti splendidi, con le sue difficoltà, coi suoi momenti di sconforto e di stress, coi suoi trionfi e successi. Me li porterò con me.
Così, questo inizio di nuovo anno, con la sua energia neonatale mi spinge ad avere finalmente pochi propositi ma molto, molto buoni.
Buon 2011, con l'augurio che ogni vostra battaglia vi veda soddisfatti alla fine e felici alla sera.
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