Cosekeso?

Ciao, questo è il mio blog, il blog nel quale ogni tanto svuoto la mia testa dai vari elementi che la riempiono.
Non c'è quasi nulla di originale, i miei pensieri sono rivisitazioni o rielaborazioni di quello che l'ambiente mi insegna e propone.

Se leggerai qualcosa "buona lettura", se non leggerai nulla "buona giornata"

ATTENZIONE: contiene opinioni altamente personali e variabili

martedì 25 ottobre 2011

Farmaci e paure

Avete mai letto il bugiardino di un farmaco? Dovremmo farlo tutti e dovremmo farlo sempre. Io non amo prendere medicine, mi faccio bastare un paio di aspirine all’anno e altrettanti moment quando il male alla capoccia diventa intollerabile.

Comunque leggo sempre il bugiardino, anche e soprattutto delle medicine per mia figlia. Ho smesso di preoccuparmi degli effetti collaterali. Credo che ci sia una necessità di tutelarsi da parte delle case farmaceutiche che porta a non indicare le percentuali di tali effetti collaterali. Mi spiego: non c’è mai scritto “può causare la morte nel 2% dei casi” oppure “può causare patologie cardio respiratorie nel 4% dei casi”.
E’ tutto imponderato e quindi rischioso.
Però non è di questo che volevo parlare. Volevo parlare della tendenza dell’uomo ad accettare di introdurre un certo numero di problemi al fine di eliminarne uno. In buona sostanza, per eliminare il problema mal di testa mi assumo il rischio di introdurre un certo numero di problemi, alcuni dei quali potenzialmente più deleteri del mal di testa di partenza. Perché?
L’uomo di suo non è un animale coraggioso, anni di evoluzione l’hanno portato a perdere aggressività e coraggio in favore di una crescita delle capacità cognitive, sociali ecc, ecc.
Cos’è allora che ci porta ad assumerci questo rischio? Credo che sia una combinazione di fattori: in primis non è una scelta razionale, il nostro cervello non dice “ok, il rischio vale la candela”; poi c’è la fiducia verso chi ci ha ordinato di prendere la medicina (avete notato che le persone dicono proprio “me l’ha ordinato il medico”); infine c’è la paura per il dolore contestuale che è superiore a qualsiasi valutazione sul dolore futuro, rifuggire il dolore è l’input prioritario nel nostro cervello.

Mi fermo prima che le case farmaceutiche mi buchino le gomme.

mercoledì 19 ottobre 2011

Gaia e il perfezionismo

Sono sempre sul divano, ormai la mia immagine ricorrente mi vede svaccato sul sofà con pieno abbandono del mio corpo e la mia mente centrata sulla piccolina che intanto gioca faticando per quattro persone.

E’ impegnata ad assemblare qualcosa, non capisco cos’è fino a quando non si gira di scatto verso di me, sorprendendomi che la fisso.
G: “Ho finito”, mi annuncia con un sorrisone trionfante.
N: “Cos’hai fatto?”, le chiedo guardando quell’insieme di mattoncini giganti.
G: “E’ come vorrei fosse disposta la camera dove staremo io e la mia sorellina”
N: “Spiegami”, le dico mentre mi ride anche il cuscino adiposo su cui sono seduto
G: “Questo è il letto mio, questo è il letto della sorellina, questo è il mio armadio e..”
N: “Ma mancano tante cose”, le dico interrompendola.
G: “Tipo?”, mi dice indispettita
N: “Non vedo la porta, come fate ad entrare in camera”.
Fissa la sua costruzione, toglie un mattoncino e mi dice:
“Ecco fatto”.
N: “Manca anche la finestra”
Stessa scena, toglie un altro mattoncino, sempre più infastidita.
“E adesso, cosa manca?”
N: “Direi che ci siamo, scusa se ti ho interrotto ma c’era qualche errore. Tu sei una perfezionista, so che ci tieni a fare le cose perfette”
G: “Hai ragione, in effetti è così. Mi piace fare le cose fatte bene però…” e lascia sospeso, per chiamare un mio commento.
N: “Però…cosa intendi?”
G: “Ti piace quello che ho fatto?”
N: “E’ molto bello, poi è molto tenero che tu ti preoccupi di dividere i tuoi spazi con tua sorella. Poi li hai divisi bene, in parti uguali, ho notato che hai rinunciato ad una parte dell’armadio”.
Mentre dico questo ecco che arriva il suo sorriso, non ho ancora capito come ma sto per prendere l’ennesima lezione di vita da questa nanetta impertinente.
G: “Quindi pensi che io abbia fatto bene?”
N: “Certo”, forse la faccio franca.
G: “Vedi, hai ragione a dire che io sono una perfezionista, che mi piace fare le cose fatte bene. Però ho capito una cosa importante nella mia vita”.
N: “Cosa hai imparato?”
G: “Ho imparato che un lavoro eccellente è una cosa diversa da un lavoro senza errori. Il mio lavoro è eccellente, lo dici anche tu. Ho suddiviso la stanza in maniera equilibrata ed equa, ho messo gli elementi principali e tu mi hai detto che ho fatto un buon lavoro. Poi non mi hai lasciato spiegare ma ci sono molti altri contenuti. Il mio essere perfezionista è soddisfatto dall’aver fatto un lavoro eccellente. Non ho indicato la porta e la finestra? Sono due errori che non hanno alcun impatto sul contenuto di quello che faccio, sulla qualità di quello che ho prodotto. Il mio essere perfezionista ha a che fare coi contenuti, se realizzo qualcosa di eccellente può anche avere degli errori, sarà comunque un lavoro eccellente. L'eccellenza ha a che fare con il contenuto primario di un lavoro. E' come una crostata. Se è buona poco importa che sia tonda o quadrata. Invece se è una torta decorativa importa molto che sia bella e meno se, magari, è una banalissima torta alla crema e pan di spagna. Bisogna capire il valore aggiunto di quello che si fa e perseguire su questo l'eccellenza”.
N: “Hai ragione, direi che fila. C’è differenza fra eccellenza e essere senza errori, dove per altro gli errori non sono determinanti perché il lavoro è eccellente.”
G: “Sai, credo che ci sia un essere perfezionisti in maniera positiva, cercando l’eccellenza, e esserlo in maniera negativa, cercando di produrre un qualcosa senza errore invece che eccellente.”
Stavolta sono senza commenti, la osservo in attesa del primo segnale di cedimento, di stanchezza.
Eccolo, braccia protese verso il babbo, è cotta. La prendo in braccio e mi avvio verso il letto mentre ripenso a quello che mi ha spiegato.

mercoledì 12 ottobre 2011

Superpoteri da dirigenti

Tempo fa scrissi che un Dirigente d’azienda deve essere come Superman, ovvero deve sentirsi i panni dell’azienda addosso. Non smette mai di essere dirigente di una certa azienda, neppure quando timbra il cartellino (o striscia il badge) se lo fa.

Oggi volevo cominciare a parlare dei superpoteri che vengono richiesti ad un dirigente. O che dovrebbero essergli richiesti. La letteratura è piena di elenchi intelligenti di competenze, conoscenze e quant’altro ma solo in questo post sentirete veramente parlare di superpoteri dirigenziali. Già mi immagino la faccia di qualche dirigente (se ce ne sono che leggono questo blog) che dice “finalmente qualcuno si è reso conto che abbiamo dei superpoteri, era ora”.
Ebbene, il primo e più importante è il famoso “strabismo dirigenziale”. Se il dirigente è votato alle forze del male si parla invece di “miopia dirigenziale”.
Comunque, lo “strabismo dirigenziale” è quel superpotere che permette al Dirigente di guardare avanti e allo stesso tempo di essere presente nel quotidiano, un occhio al futuro ed uno al presente. Questo superpotere non è così diffuso, spesso le aziende sono costrette a far convivere leader che guardano al futuro con visioni al limite del lisergico e manager che si radicano nel “qui ed ora” come sequoie nella terra. Far funzionare l’alchimia fra le due figure non è così semplice, ecco perché per un’azienda è importante trovare un dirigente dotato del superpotere dello strabismo, assicura anche coerenza.

lunedì 10 ottobre 2011

Gaia e Steve Jobs

Sono le quattro di notte, Gaia si è svegliata con un colpo di tosse e adesso richiama la mia attenzione per riuscire ad addormentarsi.

G: “Oh, babbo, ma è morto Steve Jobs e non mi dici niente?”
N: “Non volevo darti un dispiacere, ricordo che il suo discorso ti era piaciuto e ti aveva ispirato.”
G: “Ah, è vero, siate affamanti e siate folli, ricordo che me l’hai fatto ascoltare e leggere. Sì, interessante”.
N: “ Che hai fatto, non ti convince più? Mi pareva ti fosse piaciuto un sacco, che volessi cercare di rimanere affamata e folle”
G: “Hmmm, c’ho pensato. Sai, intanto la parte più bella del discorso è un’altra, ne avevamo parlato. Anzi, sono altre: unisci i puntini, il rapporto con la morte, la passione.”
N: “E’ vero, in questi giorni è stato riportato più volte lo slogan finale ma i contenuti sono altri”.
G: “E io non sono neppure così d’accordo su come lo vedo interpretato.”
N: “Cioè?”
G: “Io credo che sia importante che ognuno di noi voglia cercare di cambiare il mondo, anzi, di migliorarlo. Credo che dovrebbe essere un obiettivo per ogni individuo, credo che debba essere un assioma fondante di ogni società. Credo che se si vuole cambiare il mondo serva molto essere affamati e essere folli. Affamati perché bisogna nutrirsi del mondo, capirlo, cogliere ogni sapore e gusto, con curiosità e attenzione; Bisogna essere folli per immaginare il mondo cambiato per poterlo ottenere. Serve follia per vedere quello che non c’è.”
N: “Ok, chiaro, credo che in qualche modo sia coerente con il pensiero che voleva trasmettere”.
G: “Bene, però ne manca un pezzo, se vuoi cambiare il mondo ne manca un pezzo importante”.
N: “Dimmi…”
G: “Mettiamo che, in qualche modo, Jobs abbia cambiato il mondo”.
N: “Diciamo di sì, ha portato molte novità e un modo nuovo di intendere il business, con un focus diverso da quello cui eravamo abituati. Non mi spingerei oltre ma già questo può essere uno spunto.”
G: “Per cambiarlo sono servite due cose: essere affamati e folli per vedere cosa si poteva ottenere ed un’azienda da 45.000 dipendenti per cambiarlo”.
N: “(faccia di chi pensa di aver capito ma non si sbilancia)”.
G: “Sai cosa succede a chi progetta di cambiare il mondo, di solito?”
N: “Cosa?”
G: “Se è molto bravo fa un bel progetto. Sai cosa succede a chi vuol cambiare il mondo?”
N: “No….”
G: “E’ affamato, è folle ed è estremamente operativo, quotidiano. Questo manca come conclusione, manca il fatto che non basta essere affamati e folli. Come messaggio è perfetto se hai un’azienda da 45.000 dipendenti che è pronta ad essere operativa, ma per ognuno di noi non basta. Vedi babbo, se tu sei affamato e folle rischi di essere il babbo più affascinante fra quelli che vengono all’asilo, ma se oltre a questo la mattina ti svegli e provi a cambiare veramente qualcosa allora sei l’uomo più affasciante del mondo ai miei occhi e mi avrai fatto vedere come fare a vivere a pieno ogni mia risorsa”.
Dice questo e sviene fra le mie braccia, stanca come solo alle quattro passate si può essere. La cullo altri dieci minuti, voglio tenermi vicino un altro po’ questa piccola forza.

Non potevo non dire la mia su Steve Jobs

E’ da poco scomparso Steve Jobs e mi son reso conto di essere uno dei pochi “blogger” a non aver scritto neanche due righe di commento. Brutto e cattivo che non sono altro. Così rimedio.

Premessa: mi piace Steve Jobs, mi son studiato le sue presentazioni, l’uso delle immagini, mi piacciono i prodotti Apple e ho scritto un commento sul famoso discorso di Stanford in tempi non sospetti.
Ho individuato in questi giorni due categorie di commenti che non mi sono piaciuti: chi dice che era un grande ma è contro tutto il processo di beatificazione di questi giorni; chi si schiera contro Jobs e contro i soldi che ha fatto Apple. Parlo di commenti e articoli di giornali, il mondo blogger è stato più elegante e con più contenuti e più sincerità, se non altro.
I primi non mi piacciono perché ho letto tanti commenti sulla bravura del compianto, tanti accostamenti a Ford, Leonardo, Edison ma non ho letto accostamenti a Gesù, Budda o quant’altro, come riportato su questi commenti. Mi pare invece che ci sia stata molta umanizzazione attorno a questa morte, molti accostamenti a personaggi dell’industria ma questa beatificazione era solo nei “coccodrilli” di chi se l’aspettava, di chi voleva mettere in croce il popolino.
I secondi non li sopporto per principio, mi pare si tratti spesso di gente a caccia di visibilità per contrasto. Dalla serie, cosa fa più rumore, il fatto che mi metta in fila con chi dice che era bravo o il fatto che mi metta contro, che faccia vedere che non ho paura del sistema. Credo che davanti alla morte possa ancora esistere una cosa chiamata rispetto e che se uno vuole visibilità possa farlo senza essere per forza contro. Ci può stare criticare ma ho letto grandi pensatori che dicevano “ahhh, non scordiamoci però che Apple ha guadagnato molti soldi e ha anche sfruttato i lavoratori. E poi ha reso il mercato schiavo di Apple, andando contro i suoi stessi valori”. Volevo avvisare tutti che se mi dovesse capitare di inventare qualcosa che funziona credo che vorrò farci molti soldi e voglio vedere quanti non la pensano così. Perché guadagnare un mucchio di soldi è immorale?

Ok, basta, volevo arrivare da un’altra parte ma ormai il post si allunga, scriverò un’altra volta.
Ovviamente, come spesso accade, c’è chi ha scritto con intelligenza manifestando il proprio distacco verso l’uomo, verso l’azienda e verso i prodotti. Non mi riferisco a loro, mi riferisco a chi ha visto in tutto questo l’occasione di scrivere per farsi leggere. Lo sto facendo anche io, certo, ma almeno dico quello che penso e non quello che credo faccia più rumore.

sabato 8 ottobre 2011

Gaia e la colazione dei campioni

Sono steso sul divano, ancora non mi sono abituato alla comodità di questo nuovo gioiello del mio salotto.

Guardo Gaia che come al solito è intenta in progetti di gioco serissimi e complicatissimi. Ogni tanto le viene in mente di alzarsi e si mette in piedi e poi, come una grande attrice, cerca approvazione in giro.
E’ consapevole di avere tutta la mia attenzione anche quando non guardo. All’improvviso si risiede con il nuovo controllo dei movimenti che l’anno d’età comporta. Mi fissa e mi fa:
“Cosa avevi fatto prima a tavola, avevi una faccia? Mica discutevi con la mamma?”
N: “No, scherzi ero solo concentrato. Avevo chiesto alla mamma cosa ne pensava di un lavoro che avevo fatto ed ero in attesa di sapere cosa ne pensasse.”
G: “Non avevi una gran faccia, parevi tirato ma ti ha detto che fai schifo?”
N: “No, anzi è stata positiva”.
G: “Mah, sai che io ancora non mi spiego e non capisco bene ma la tua faccia non era rilassata”.
N: “Beh, sai non è facile fare un lavoro cui si tiene tanto e chiedere qualcuno un feedback”.
G: “Perché? Non era mica qualcuno, era la mamma”-
N: “hai ragione però un minimo di chiusura c’è sempre, nonostante la mamma”.
G: “Ma cosa ti ha detto?”
N. “Ha fatto qualche commento sulla forma, in alcuni passaggi non sono scorrevole e poi….ma cosa ti interessa?”
G: “Vai avanti, ho bisogno di capire”
N: “Allora…mi ha poi chiesto di rispiegare un passaggio che non le era chiaro e mi ha segnalato un paio di errori di battitura o di ignoranza, ancora non l’ho capito”.
G: “Hai preso appunti?”
N: “Certo, mi son segnato anche uno spunto che mi ha dato per scrivere altro, una riflessione”.
A quel punto le esplode un sorriso in faccia, uno di quei sorrisi che le esplodono quando capisce qualcosa di nuovo che le piace o le interessa, un sorriso pieno.
G: “Ok, allora adesso mi devi fare una promessa, una di quelle promesse da babbo. Ci stai?”
Che fenomena..
N: “Ma certo, chiedi pure”
G: “Voglio che tu mi insegni a ricevere feedback, voglio che mi insegni ad ascoltare con apertura e senso critico quello che mi dicono gli altri”.
N: “E’ bellissimo, anche a me piace farlo e cerco di farlo”.
G: “No, non hai capito, io voglio farlo con le emozioni. Io lo vedo che tu cerchi di essere predisposto ai consigli, alle annotazioni e vedo anche che prendi appunti, cerchi di trarre spunti da quello che ti dicono, correggi quello che ti segnalano ma vedo che la tua testa dice ben altro quando ascolti, vedo che le tue emozioni non sono di apertura ”.
Ci penso, in fondo ha ragione. La cosa che mi colpisce è che non gli avevo mai dato peso. Provo a buttarla là: “Forse hai ragione ma come vedi sono sempre o quasi recettivo, cosa cambia, riesco comunque a resistere abbastanza alle mie emozioni per non perdere la lezione”.
G: “Hai ragione ma io non ho paura di non capire o di non recepire, io voglio imparare a ricevere i feedback con apertura e con serenità perché questo mi farà stare meglio. Non voglio avere nessuna ansia legata ad una cosa che faccio perché quella cosa sono io ma non è tutta me stessa. E io sono migliorabile mentre tutta me stessa è la cosa migliore che ho da mettere in gioco, non posso aver timore di ciò che mi può far crescere ”.
E’ entusiasta di questa conclusione, lo vedo dagli occhi, è bello vedere la consapevolezza che ha nel tener distinto quello che è da quello che fa.
G: “Quello che sono non è quello che faccio ma se miglioro quello che faccio posso migliorare anche quello che sono. Il feedback è la colazione dei campioni, lo dicono negli USA”.
Mi ha letto nel pensiero, adesso è di nuovo in piedi, barcolla dalla vittoria, si sbilancia e cade e mi fissa.
N: “Brava, ma cerca di non tenere il culo così in dietro che ti sbilanci”. Mi sorride da seduta e mi fa cenno di andare a prenderla, è ora di nanna.

giovedì 6 ottobre 2011

Auguri Gaia

Sono mesi che penso questo post. Si può dire che tutto il mio blog sia nato grazie a mia figlia, che senza dire e chiedere nulla mi ha fatto venir voglia di essere concreto.

Per una volta Gaia non dirai nulla, semplicemente mi ascolterai.
C’è una parte di storia che ti appartiene ma che allo stesso tempo ti precede. La mamma ed io avevamo deciso di avere un bimbo e ci eravamo attrezzati per questo. Purtroppo le prime analisi che ci fecero non ci davano molte possibilità. Io avevo i “ragazzi” pigri e al mamma le “ragazze” stordite, come abbiamo sempre detto fra di noi. Eravamo pronti a tutti i sacrifici possibili per averti, non c’era cosa che non avremmo fatto per poterti avere. Avevamo considerato ogni ipotesi, preso in esame ogni problema ed ogni volta avevamo una soluzione. Nel momento in cui eravamo invincibili sei arrivata tu. Io avevo già messo l’armatura per affrontare draghi e mostri ed invece tu sei arrivata nel modo più semplice del mondo. Abbiamo trattenuto il fiato davanti a questo miracolo ma poi abbiamo capito che tu eri la cosa migliore che potesse venire da noi due, proprio perché statisticamente non eri plausibile.
 Poi sei nata ed ogni istante con te mi rendo conto di quanto sia vero tutto questo, ogni momento mi rendo conto della perfezione e della bellezza che sei. Dopo un anno ci sono cose di te che posso dire con assoluta certezza. Sei affascinante, hai qualcosa di magico, attiri le attenzioni della gente e non solo perché sei una bimba. E’ un dono, quando arrivi tutti ti prestano attenzione, coltivalo senza abusarne.
Sei forte e determinata, lo vedo da come giochi, dall’energia che sai mettere in ogni cosa che fai, dalla decisione con cui affronti ogni difficoltà che ti trovi davanti. Per quanto piccole possano sembrare ad un adulto mi rendo conto di quanto tu debba sforzarti per farlo. C’è stato un periodo in cui ti avvilivi quando non ti riuscivano le cose ma adesso non è più così.
Però non sei fissata, riesci a rinunciare a trovare altri interessi, altri giochi quando qualcosa non è più divertente, al di là della fatica.
Sei autonoma, anche troppo, vorrei stringerti e coccolarti ma tu più di un minuto non resisti, hai bisogno di più stimoli di quelli che un abbraccio può darti. Preferisci che io mi stenda sul tappeto e lasci che tu mi scali.
Hai mille altre cose che mi fanno impazzire ma quella che più mi conquista è che mi ricordi Giulia. Si è vero, sei uguale a me, chi non lo dice non ha mai visto una mia foto da piccolo, però sei bella come la mamma.

Amore mio non mi resta che augurarti buon compleanno, dodici mesii fa la tua mamma ti ha salvato la vita e mi ha dato un altro cuore nel petto che mi spinge vita in tutto il corpo.

Oggi è la tua festa, spero che ogni anno che passa tu possa trovare tutto quello che vuoi e ricorda sempre, se il destino è contro di te, peggio per lui.

sabato 1 ottobre 2011

Dove basta l'idea

Tempo fa girava una foto in cui il presidente degli USA si intratteneva a cena con alcuni dei pezzi grossi delle aziende più interessanti ed affascinanti della famigerata Silicon Valley: Apple, Google, Facebook, Yahoo, Microsoft.

Guardando la foto e leggendo un po’ della storia delle persone si possono trarre alcune considerazioni. Hanno tutti iniziato giovanissimi (alcuni lo sono ancora) e sono tutti dei tecnici. Mi spiego, i vari Zuckemberg, Gates, Jobs e compagnia bella sono coloro che operativamente hanno creato e sviluppato l’idea iniziale. La maggior parte non sono laureati, ma questo non c’entra, forse.

Sapete cosa mi colpisce maggiormente e cosa non avevo capito fino a fine maggio? Come può un ragazzo con tendenze nerd creare un’azienda così grande in così poco tempo? Capisco essere nel proprio scantinato o garage, a seconda del mito, e smanettare su un pc fino a far funzionare il progetto primordiale. Ma da lì a creare una multinazionale. Facebook, per fare un esempio, è passata da un PC ad essere un’azienda multinazionale con migliaia di dipendenti in pochissimo tempo. Com’è possibile? Chi si è occupato di sviluppo organizzativo, chi ha deciso la struttura, chi il supporto legale? Se penso ad un’azienda mi sembra una cosa molto complessa da realizzare mentre si cerca ancora di rendere remunerativo il “prodotto”.
Fino a maggio molto ingenuamente non l’avevo colto. A maggio ho avuto modo di partecipare ad una conferenza AIDP dove era presente un professore di Berkeley. Nel raccontare le proprie esperienze ha detto di essere anche membro di un fondo di investimenti. La prima cosa che ho pensato è stata a cinque amici al circolo del golf con qualche milione di dollari da spendere che giocano assieme in borsa. Non è così.
Il loro mestiere è fare soldi, ma non (solo) in borsa. In pratica quando tu ritieni di avere una buona idea vai da loro, gliela spieghi e se li convinci loro ci mettono tutto quello che non è l’idea. Quindi la struttura, l’organizzazione, i soldi, l’esperienza di business, il supporto legale. Al nostro nerd non resta che concentrarsi sull’idea a sugli aspetti tecnici, deve fare quello che è in grado di fare, assumere un incarico tipo AD o CEO, avere delle quote della sua stessa azienda ma non pensare a cose del tipo “mi serve un ufficio finanza e controllo o è meglio se faccio un ufficio sul controllo di gestione, amministrazione e gli aspetti finanziari li tengo a parte”, “quali uffici sono più opportuni, di chi mi devo fidare, quale forma societaria devo adottare, come faccio a penetrare il mercato cinese, meglio area manager o territory manager”.
Ora credo che queste società, avendo come scopo quello di far soldi, siano molto selettive e quando mettono mano su un’idea poi la mungano con forza. Quindi il nerd di turno, se non è un po’ sveglio, rischia di trovarsi spogliato. Però questi fondi sono capaci di creare aziende, non sono interessati ad avere idee.
Per chiarire ulteriormente, nel mio immaginario le vedo come emanazioni del demonio pronte a sottrare le aziende ai poveri geni sprovveduti una volta che tecnicamente il genio ha trasferito ad una struttura il suo sapere. Però è molto meglio di quello che fanno le banche. Questi non prestano soldi, non concedono somme, questi supportano business investendo i loro soldi e cercando di farne altri. Forse in Italia, dove regna l’idea della bottega, avrebbero difficoltà ad esistere, ogni piccolo artigiano sogna di essere un grande imprenditore e vuole farcela con le sue forze, senza l’aiuto di nessuno, mettendo chi conosce lui a fare quello che ha sentito dire da un altro che gli serve. Quindi abbiamo uno stuolo di imprenditori ex artigiani che hanno creato un impero grazie agli attributi ma che poi sono circondati da mediocrità e quando devono andare in pensione magari non hanno neppure un erede degno. Non succede sempre, ho in mente e ho visto casi in cui l’imprenditore è riuscito a dare continuità. Un’impresa però ha bisogno dei soldi delle banche, è ovvio, allora perché non farsi supportare anche nello sviluppo dell’azienda, in modo da focalizzarsi solo sull’idea.

Fra l'altro, se io fossi il nerd di turno, mi sentirei molto più tranquillo a dovermi occupare solo di sviluppare l'idea, di dover curare quello che più mi appartiene.