Cosekeso?

Ciao, questo è il mio blog, il blog nel quale ogni tanto svuoto la mia testa dai vari elementi che la riempiono.
Non c'è quasi nulla di originale, i miei pensieri sono rivisitazioni o rielaborazioni di quello che l'ambiente mi insegna e propone.

Se leggerai qualcosa "buona lettura", se non leggerai nulla "buona giornata"

ATTENZIONE: contiene opinioni altamente personali e variabili

sabato 27 novembre 2010

Valori, Idee, azioni. Prima riflessione su Adriano Olivetti

Ho deciso di studiare un po' il personaggio Adriano Olivetti.
Sono curioso di capire come un imprenditore scomparso 50 anni fa (1960) possa essere ancora così un riferimento nelle aule di gestione aziendale e, in particolar modo, di gestione risorse umane.
La sua vision potrebbe essere riassunta in "sperimentare su come si possano armonizzare lo sviluppo industriale con la affermazione dei diritti umani e con la democrazia partecipativa, dentro e fuori la fabbrica".
Da una prima lettura superficiale emerge il profilo di un uomo fortemente influenzato dal fordismo ma con la grande capacità di capire come Italia e Stati Uniti non siano la stessa cosa.
Il suo wellfare all'interno dell'azienda raggiunge livelli di assitenzialismo, ciò che lui pensava dovesse essere un servizio per i suoi dipendenti è utopia a 50 anni dalla morte.
Bah, lasciando ad altri momenti l'analisi di questi aspetti voglio riportare la prima cosa che emerge forte nella sua biografia.
Il coraggio.
Adriano Olivetti era un uomo fisicamente poco marziale, faticoso, spesso con l'aria assente di chi è avvolto da pensieri complicati.
Però aveva un coraggio incredibile. Un coraggio di pensiero e di azione.
Partecipò ad azioni politiche molto forti, esponendosi a rischi superiori a quelli che noi saremmo disposti a correre oggi. Ho in mente la liberazione di Filippo Turati.
Molti di noi, oggi che viviamo in uno stato in cui il concetto di lbertà è sicuramente più forte e definito, non ci esporremmo mai a quello che ha fatto lui.
Quello che mi colpisce e che vorrei ricordarmi nella mia quotidiniatà è che c'è sicuramente un coraggio intellettuale che è lodevole e deve essere un volore importante. C'è però, nelle persone come Olivetti, un coraggio operativo che li rende unici, c'è l'ardire di provare a concretizzare il proprio pensiero, la fiducia nel proprio progetto. Olivetti aveva la forza di essere un pensatore libero e geniale e il grande coraggio di non limitarsi a pensare ad avere idee.
Quante volte ci gratifichiamo per il livello del nostro pensiero, compiacendoci delle soluzioni che abbiamo pensato, studiato, trovato.
Quante volte abbiamo il coraggio di mettere in pratica le nostre idee, pronti a confrontarci col fallimento forti solo della convinzione di avere ragione.
Beh, Olivetti lo faceva. E' andato a fare la prima acquisizione d'azienda negli stati uniti, molto prima che Marchionne e Fiat facessero lo stesso con Chrysler.
Aveva coraggio, non era sconsiderato. Aveva fiducia in quello che pensava, fiducia nella bontà dei suoi valori. Infatti, probabilmente, per poter essere così determinato non è sufficiente essere certi delle proprie idee, bisogna sapere che queste idee poggiano su valori che sono vincenti, che sono dati dalla nostra cultura, dalla nostra educazione, dalla nostra società e, per alcuni, dalla nostra fede. Beh, credo che farsi guidare dai propri valori sia il modo migliore per avere idee che siamo sicuri di poter concretizzare.
Chissà, forse ha ragione Google quando cerca nei candidati una condivisione dei valori e dello spirito dell'azienda oltre che una capacità tecnica.
Un gruppo di persone che condivide volori importanti avrà sempre una basa d'accordo su cui lavorare.

giovedì 25 novembre 2010

Ore 13.00 Mumbay, linee intasate

Sapete che il momento potenzialmente più produttivo potrebbero essere le ore 13.00 di Mumbay? Ho letto oggi questa interessante analisi che ci mette davanti ad un problema figlio diretto della globalizzaione: la contemporaneità.
E sapete anche che se consideriamo tutte le festività più importanti il 2011 avrà solo 15 settimane non interrotte da festività?
Questa è una sifda importante cui la globalizzazione ci mette di fronte.
Fino ad oggi le uniche risposte che ho sentito dare a questa sfida sono di natura quanitativa: ecco quindi che a New York iniziano a lavorare presto e a Sydney finiscono tardissimo (o viceversa?!).
Ma la risposta, come sempre, non può essere solo quantitativa.
Anzitutto, se la nostra realtà worldwide è legata ad aziende della stessa società sarà importante lavorare sull'autonomia dei centri lontani dalla casa madre.
Ma se in altri continenti abbiamo fornitori e clienti?
Bisognerà sfruttare a pieno i nuovi strumenti comunicativi.
Spesso usiamo in maniera superficiale ed imprecisa email, instant messenger e simili dando maggiore risalto alla loro velocità, alla quasi contemporaneità di queste forme di comunicazione e condivisione scritte. Pensando e riducendo il loro valore aggiunto alla velocità.
Invece è importante che manteniamo sempre una precisione d'intenti, una cura nella forma, una chiarezza dei contenuti e, perchè no, un'eleganza della scrittura.
Chi ci legge potrebbe farlo quando noi siamo in procinto di lavarci i denti e potrebbe inoltrare la nostra email a qualcuno che la legge e prende decisioni quando siamo in fase REM.
Forse val la pena prestare attenzione.
I nuovi canali comunicativi accelerano la comunicazione nel mondo sicuramente per velocità del mezzo in sè. A mio avviso però il vero valore aggiunto è nel potenziale di condivisione che c'è in poco tempo. Quanto riesco a comunicare velocemente e in sicurezza. Non solo quanto velocemente. Per questo c'è sempre stato il telefono.
Il mondo è grande, non è contemporaneo. Saturiamo il web di contenuti e non di semplice tempestività.
Quello che per noi è "subito" forse per chi riceve è già "domattina".

mercoledì 24 novembre 2010

Pancia VS datadriven. Ovvero scelte e successo.

Ieri sera ho fatto una lunga chiacchierata con una persona che mi ha raccontato tutte le sue vicissitudini professionali.
Ad un certo punto gli ho chiesto quale fosse stata la grande difficoltà nel passare da una multinazionale americana ad una grande azienda italiana.
Mi ha risposto che la difficoltà è stata adattarsi al metodo di prendere decisioni. Mi ha spiegato che gli americani sono culturalmente datadriven, ovvero si fanno guidare dai numeri nel prendere le loro decisioni. La società italiana prendeva le sue decisioni di pancia e sulla base dell'esperienza, dell'intuito.
Ha concluso dicendo che è stato difficile adattarsi ad uno avendo lavorato ed essendosi formato con l'altro ma che non ha individuato un modo migliore, non promuoveva o bocciava nessuno dei due.
E qui inizia la mia riflessione. Ci sono molte scuole che ci insegnanao come prendere le decisioni, quali aspetti considerare, come fare gestione del rischio, come analizzare possibili scenari, come avere spirito imprenditoriale.
Ma a cosa servono? Come si fa ad avere la certezza di aver preso la giusta decisione?
Non si può. Nel mio solito viaggio in macchina mi sono convinto che le varie scuole che ci insegnano come fare a prendere decisioni servano in realtà ad altro. Non hanno lo scopo di abbassare il livello di rischio, hanno l'obiettivo di darci la giusta spinta nel perseguire la nostra decisione. La grande azienda italiana che decide di pancia o la multinazionale statunitense che prende decisioni in base ai numeri si assumono ugualmente dei rischi. La differenza è che il management di cultura americana, per essere motivato e determinato nel perseguire i propri risultati ha bisogno del conforto numerico, il management italiano ha bisogno di credere in qualcosa, di visualizzare un traguardo.
Quindi, se parliamo di livelli di professionalità così alti, non ritengo ci siano metodologie più vincenti di altre, ritengo che ci siano situazioni che ci rendono la scelta più o meno perseguibile e che quindi ci motivano diversamente rispetto alla stessa.
In fondo, fra le varie scuole di pensiero c'è anche chi dice che una scelta, per essere veramente tale, deve essere emotivamente accettabile. Credo che sia più che corretto, se poi per renderla emotivamente accettabile servono numeri, serve la storia, serve la logica o serve l'intuito, poco importa. La cosa importante non è la decisone ma come la si porta avanti.
La stessa cosa coi propri collaboratori. Cosa li convince che la scelta e la direzione in cui li portate è corretta? Il conforto dei numeri, la condivisione del progetto, la spiegazione logica oppure semplicemente la leadership del capo. In ogni caso credo che l'unica vera leva sia il coinvolgimento, sia il comunicare e condividere le scelte e le decisioni. In questo modo si capisce se sono emotivamente accettabili e condivise e se quindi avranno successo oppure no.

lunedì 22 novembre 2010

Documentario GOOGLE

Ieri sera ho visto un documentario che parlava di Google.
Ovviamente la mia attenzione è ricaduta sulle parti che riguardavano il personale.
Alcuni aspetti sono di un altro pianeta: il fatto che i dipendenti vengano invitati a dedicare il 20% del loro tempo ad attività che ritengono importanti, a prescindere che siano pertinenti col lavoro; il fatto che vi siano lavagne bianche ovunque dove prendere appunti; la grande condivisione di tutte le informazioni nonostante la chiusura delle stesse informazioni verso l'esterno; alcune modalità di fare le riunioni, in particolare mi ha colpito la camminata settimanale, che è meno banale di quel che sembra.
In realtà, alla fine, la cosa che più mi ha incuriosito è stata la selezione.
Partiamo un passo indietro. Cosa fa Google: offre servizi on line agli utenti e ottiene ricavi delle pubblicità che compaiono a margine di tali servizi (pubblicità sempre molto discrete, solo testo). Ad esempio è molto bello come loro parlavano degli utilizzatori come dei loro veri clienti, nonostante prendano soldi da chi occupa gli spazi pubblicitari.
Siamo al 2.0 dei servizi, la cosa che ancora sfugge alle banche: io non sono quello che ti paga ma sono ugualmente il tuo cliente. Se io sono soddisfatto altri ti pagheranno.
Quindi si tratta di un manipolo di ingegneri informatici che deve anticipare il più possibile le esigenze dei clienti e tradurle in idee, quindi in codici, quindi in servizi.
C'è molta creatività e ricerca.
Bene, ieri raccontavano di percorsi di selezione che prevedono anche 15 colloqui.
Perchè questo? Perchè la parte importante è capire se la persona può inserisi bene nel gruppo, se ne potrà condividere cultura, modelli, valori, obiettivi, modalità operative.
Le conoscenze, gli ottimi voti accademici sono condizione necessaria ma non sufficiente: ci devono essere caratteristiche personali che facilitino l'integrazione.
Che spettacolo, non mi viene da aggiungere altro.
la cultura organizzativa, i modelli mentali, i valori, il clima sono al centro del processo di seleizone.
Certo, magari non è sempre così, magari lo è solo per determinate figure.
Però è molto interessante, credo che cercherò di approfondire la cosa, ci saranno scritti, racconti.
Certo, pensando alla nostra realtà fa sorridere, specialmente se pensiamo che un certo livello di attenzione verso le risorse umane l'abbiamo avuto in Italia qualche decennio fa.....Adriano Olivetti.

domenica 21 novembre 2010

Inutilità delle eccellenze - provocazione domenicale

Come spesso capita esordirò con un commneto sul calcio. Però non disperate, vi metterò a conoscenza di un pensiero che non c'entra col calcio.
Ieri sera il Milan ha vinto battendo la Fiorentina con un goal da spiaggia di Ibraimovic.
Da Interista adesso odio profondamente Ibra (in senso sportivo). L'ho amato quando era allla Juve per il suo modo di prendere in giro il mondo, per la sua strafottenza, ma adesso non ce la posso fare.
Comunque, volevo parlare di eccellenze e della loro inutilità.
Ibra è un giocatore eccellente, che gioca partite eccellenti e che fa vincere la sua squadra.
Questo è un caso in cui l'eccellenza si dimostra utile, almeno nel breve periodo.
Nel gioco di squadra, così come nel lavoro in team, non sempre l'eccellenza serve. Se io fossi il progettista di una macchina di formula uno, mettiamo quello che deve sviluppare il motore, avrei come input di creare un motore con prestazioni eccellenti, cavalli, coppia, affidabilità. Bene, potrei disegnare e realizzare un supermotore con tutte queste prestazioni eccellenti ma con un ingombro ed un peso non funzionali. Sarebbe un problema di chi si occupa delll'aerodinamica del mezzo e della sua tenuta di strada. Io avrei fatto una gran cosa...ma inutile.
Se invece mediassi l'eccellenza tecnica che sto creando con le esigenza del team allora forse non avrei il motore migliore ma probabilmente avremo la macchina più veloce.
Chissà, forse le squadre che giocano con Ibra si accontentano di un giocatore incredibile ma potrebbe non essere la soluzione migliore. Magari nei momenti in cui è in forma non si notano problemi ma quando non gira lui che succede?

Ora tutta questa riflessione in realtà è un grande bluff per arrivare ad un conclusione diversa.
Usiamo un altro sport, il tennis, che conosco bene.
Andy Roddick, tennista americano, è dotato di un gran servizio. Serve ad una velocità impressionante e genera dal servizio un mucchio di punti. Roger Federer serve visibilmente più piano di lui e di molti altri ma genera ugualmente un gran numero di punti. Questo perchè non serve forte ma serve bene.
Non è mai vero che le eccellenze sono inutili e non servono, è vero invece pensare e capire quali sono realmente le eccellenze che ci chiede il team o che sono necessarie. In alcuni casi, contro alcuni avversari, è eccellente servire piano, magari addirittura semplice, per non vedersi tornare in dietro la pallina a velocità accellerata.
Se mai ci dovesse capitare che il nostro meglio non è sufficiente forse è il caso di ripensare a quale "nostro meglio" è opportuno mettere in campo.

Vedere, capire, sentire cosa ci viene richiesto da ciò che ci circonda viene spesso tralasciato ma è indubbiamente il momento in cui si gioca la riuscita delle nostre eccellenze.

giovedì 18 novembre 2010

Cartelli stradali

Sapete che il nostro cervello, quando legge una parola ne identifica anche la forma.
Per questo alcuni cartelli stradali usano lettere maiuscole e minuscole, perchè caratterizzano maggiormente una "forma" rendendo più immediato il riconoscimento del cartello. Quando leggiamo ad "alta velocità" l'attività di completamento del nostro cervello è molto importante. ecco perchè si cerca di facilitarla.
In Italia direi che non è così, son tutti a lettere maiuscole, ma in Inghilterra mi risulta siano maiuscoli e minuscoli. In questo modo, anche con un'occhiata fugace, diamo al nostro cervello maggiori elementi per identificare la forma del cartello e abbinare alla forma la parola e quindi farci capire la destinazione.
Anche la scelta dei colori è fatta per rendere più facile una lettura immediata, per far rislatare la scritta mantenendo netti i contorni ma allo stesso tempo dando visibilità al segnale. Se avete avuto occasione di girare saprete che i cartelli sono sempre a sfondo blu o verde, magari ivnertiti rispetto ai nostri (blu autostrada, verde SS.).
Detto questo, buona strada.
Ah, avete mai fatto caso che l'omino dei lavori in corso pare uno che non riesce ad aprire un ombrello........

Superman è un Dirigente



Ma i dirigenti non sono superman. Questo per fugare dubbi sin dall'inizio.
Oggi sono otto anni che mi son laureato. Complimenti a me.
Faccio un lavoro che mi ha sempre portato, sin da quando ero molto freshman, a contatto con un sacco di dirigenti.
Mi è capitato spesso di vedere persone trasformate in dirigenti (si usa proprio l'espressione "trasformare", forse perchè si ritiene che possano accadere miracoli con la sola imposizione della dirigenza). Durante la mia prima esperienza professionale ho imparato a dare un gran valore al livello e a capire che non tutti siamo destinati a diventare dirigenti, fortunatamente. Non è un traguardo, è una trasformazione. Non riguarda "solo" la propria professionalità, riguarda l'approccio.
Ragionando di questi aspetti questa mattina in macchina (cosa farò quando la venderò?!?!?!) ho cominciato a mugugnare fra me e me riguardo alle differenze fra il dirigente e il quadro, poteri, incarichi, autonomie, responsabilità. Da lì arrivare ai poteri dei supereroi è stato più facile di quel che credessi.
Poi ho capito che in effetti c'è un superoe che incarna bene lo spirito del dirigente.
Superman.
Ora, non è nulla che riguardi il suo potere o la sua forza. Semplicemente questo:
ogni mattina Peter Parker si sveglia Peter Parker e, al bisogno, si veste da Uomo Ragno, salva il mondo, bacia la ragazza, uccide inavvertitamente (perchè i superoi sono buoni) il cattivo. Però fino al morso del ragno era Peter Parker, rimane Peter Parker. Così come Bruce Wayne è Bruce Wayne fino a quando non c'è bisogno di Batman.
Chiaro dove voglio arrivare?
Superman è sempre Superman. Clark Kent è una copertura. Non esiste. Superman non diventa superoe all'occorrenza, diventa "finto normale" per copertura.
Ecco, se mai dovessi sintetizzare cosa ho imparato sull'essere dirigente in questi primi anni di carriera, lo sintetizzerei così. Quando uno smette di mettersi i panni del dipendente nel momento in cui timbra il cartellino ma si veste sempre i panni dell'azienda, allora è possibile che possa, un gionro, essere dirigente.

Ovvio, è una condizione necessaria ma non sufficiente (adoro dai tempi del liceo questa espressione) però giunti ad un livello di crescita di un certo tipo (e cioè avendo accumulato molti superpoteri in azienda) la differenza fra essere Superman o l'Uomo Ragno è nell'approccio.

Bene, questo ha un impatto anche sulle mie motivazioni personali, "ma questa è un'altra storia" (cit. M.Ende).

Ultima necessaria precisazione: tutto quanto IMHO!

lunedì 15 novembre 2010

Attenzione, concentrazione, ritmo e ....

Ieri sera ho amaramente visto l'Inter perdere un derby.
Pazienza, ne perderemo altri e ne vinceremo altri. Oltre a qualche pareggio, ovviamente...
Comunque, non è di questo che volevo parlare, ovvio.
Volevo parlare di concentrazione.
Bene, ieri sera ho visto Snejder battere due calci d'angolo in maniera vergognosa.
E' dai tempi di Recoba che mi chiedo come faccia un professionista, con la palla ferma, il giusto tempo per pensarci e un contesto tutto sommato conosciuto, a sbagliare un calcio d'angolo.
Poi magari, dopo due minuti fa una cosa incredibile per difficoltà tecnica.
Credo sia un problema di concentrazione. Come sempre questo pensiero ha passato la notte e questa mattina in macchina è tornato alla mente, allargandosi.
Quante volte ci capita di fare o di veder fare semplici azioni in maniera incredibilmente sbagliata, senza apparente motivo? Non pariliamo di situazoni in cui le persone non sono motivate, non voglio credere che i calciatori che sbagliano i calci d'angolo non siano motivati, parlo di quelle situazioni troppo facili, quando il livello di attenzione scende talmente tanto che quello che è facile diventa difficile e non ce ne rendiamo conto. La confidenza con certi meccanismi, la sicurezza e l'apparente facilità del compito ci inducono a sottovalutare la cosa. Fino a quando non è troppo tardi.
Forse da piccoli abbiamo fatto poca attenzione (?!?) quando le maestre ci invitavano a stare concentrati e adesso incappiamo in situaizoni incredibili per chi ci guarda.

domenica 14 novembre 2010

Comunicazione e panni da lavare

Ci sono alcune attività che vengono svolte in maniera non efficace per diversi motivi.

Prendiamo come esempio sciocco, ma spero non banale, il ciclo di lavaggio dei vestiti nella mia azienda-famiglia.

Gli input del ciclo possono essere più d'uno:

La cesta dei panni sporchi è piena; mi manca una camicia da indossare; vorrei mettere per la cena di sabato proprio quel paio di pantaloni. Solo per citarne alcuni.

La fase successiva è la preparazione del carico e l'avvio della lavatrice. Consideriamolo come un'unica attività.

Poi il mezzo elettromeccanico lava e la fase successiva è stendere.

Ultima fase, stirare.

Bene, a mio avviso il ciclo potrebbe essere gestito con più efficacia da una sola persona. Non richiede competenze tecniche particolari (o che non possano essere apprese), in aggiunta non ci sono troppe occasioni di miglioramento o modifica del ciclo stesso. Spezzare e distribuire le fasi implica complicazioni.

Però a monte ci sono altre valutazioni. Veniamo a descrivere come funziona in casa mia, poi arriviamo alle valutazioni.

Io sono mortalmente pigro a livello domestico e il mio contributo per questa attività si esaurisce nello stendere i panni (cosa in cui comunque sono bravo). Raramente faccio la lavatrice e raramente senza una supervisione diretta.

Se una persona facesse tutto sarebbe più facile, dicevamo, poichè potrebbe gestire i tempi e gli spazi.

In casa mia, però anche con la divisione in fasi, funziona bene.

Cosa fa funzonare tutto?

La comunicazione.

Un processo semplice, complicato dal fatto che è suddiviso su più aree/persone/funzioni rimane efficace perchè c'è comunicazione.

Voi direte, perchè non può fare tutto Giulia? Perchè questo mi creerebbe difficoltà. Attenzione, è una necessità mia e non di Giulia, questo è importante per seguire il ragionamento. Come dicevo, io sono molto pigro ma voglio difendere il mio ruolo attivo anche a livello domestico e preferisco far leva sulla comunicazione e gesire un processo non efficace che non far saltare equilibri di motivazioni interni.

Spero che sia chiaro questo passaggio: vi sono necessità superiori all'efficacia del processo. Questo è il succo. Rendiamo complicata una cosa semplice perchè io ho bisogno di dare il mio contributo. Eccoci.

Questo implica che il mio sforzo per mantenere l'equilibrio di prima è nella comunicazione. Nel dire che i panni sono da lavare, nell'ascoltare quando mi dicono che la lavatrice funziona (o nel essere attento io stesso a sentire che lei funziona o nel far caso quando rientro se le luci del disply sono accese), nel comunicare che i panni sono aciutti. Poi, dato che la comunicazione ha un potere infinito, ci offre l'occasione per rendere un processo inefficace un processo comunque ottimale e di creare occasioni di miglioramento. Occasioni figlie del confronto.



Quindi, cosa volevo dire in tutto questo caos? Intanto che secondo me, se non si considerano le emozioni e le motivazioni, nessun processo potrà mai dirsi efficace. La programmazione organizzativa deve considerare questi aspetti. Diversamente dovrà considerare dei fallimenti o rendersi conto che ci sono valori superiori all'efficacia produttiva.

In aggiunta direi che qualunque processo apparentemente non funzionale può essere compensato con la comunicazione (e l'ASCOLTO, lo metto fra parentesi ma maiuscolo).

In conclusione ritengo che qualunque processo preveda comunicazione crea un'occasione di confronto. Lo sforzo organizzativo di dare spazi e tempi alla comunicazione ed al cofnronto è inferiore al valore aggiunto che se ne può ricavare. Tenendo presente che il rischio di fallimento è inferiori.



In fin dei conti, se ho imparato ha stendere bene le camice dai feedback ricevuti vuol dire che funziona....



Ora vado, non sento più la centrifuga, è il mio turno.



p.s. ogni riferimento a modelli gestionali famigliari è puramente casuale e potrebbe non rispecchiare la verità. Oppure, sappiate che non è vero che stendo solo i panni......

venerdì 12 novembre 2010

Vorrei fare un errore bellissimo

Ritengo di essere una persona che nella vita ha avuto molto culo (ho usato la parola culo perchè assieme alla parola Berlusconi credo sia una delle più googleate e quindi spero di recuperare qualche contatto. Fra l'altro con queta parentesi ho usato anche la parola Berlusconi, che è molto ricercata. Sono un genio del crimine).
Tornando a noi, ho avuto fortuna perchè professionalmente ho sempre avuto la possibilità di fare molti errori e di imparare da essi.
Le persone che mi hanno guidato mi hanno sempre messo in situazioni di grande tranquillità rispetto ai miei errori chiedendomi solo di imparare da essi, di non ripeterli due o tre volte ma, casomai, di cambiare errore.
Questo mi ha fatto crescere con una forte cultura dell'errore e ho sviluppato una grande attenzione rispetto ai diversi inciampi in cui possiamo incorrere.
Ho imparato che anche nello sbagliare si possono fare errori.
Succede quando non siamo in grado di trarne valore aggiunto, quando non siamo in condizione di risalire alle cause del nostro sbaglio.
E' importante avere la serenità di dedicare tempo ai nostri errori.
Altra cosa importante che ho capito è che c'è differenza fra l'errore e la persona che lo commette. Mi è servito per acquisire la giusta serenità davanti alle mie cavolate. La scuola in questo non aiuta, tende a non far differenza fra performance e persona. Tende a giudicare la persona insufficiente e non una serie di prestazioni della stessa.
Mettere la persona al centro dell'errore rischia di generare comportamenti di chiusura e di far perdere l'occasione di imparare dall'errore.
Io spero di riuscire a passare questi concetti a chi mi è vicino, non solo professionalmente. Sbagliare è una delle migliori occasioni che abbiamo per capire in pratica la logica delle cose. Alcune tecniche di analisi del lavoro partono dall'analisi degli errori. Sbagliare ci offre un'opportunità di imparare che forse neanche una performance perfetta ci garantisce.
Essere davanti ad un proprio errore ci mette in condizioni di avere tempo per pensare, per valutare, per ragionare. Procedere dritti e spediti senza intoppi può privarci di queste occasioni e nel tempo renderci meno consapevoli.
Ovvio che se potessi scegliere vorrei non sbagliare mai ma, dal momento che sono altamente "fallibile", cerco di mettermi nelle condizioni di non chiudermi davanti ad un mio errore e di giustificarlo solo fin dove il farlo aggiunge elementi di analisi.
Perchè tutto questo? Non ne ho idea, come sempre è un pensiero della sera, di prima di addormentarsi che la mattina, nel viaggio verso l'ufficio, diventa testo.
Quindi buon errore a tutti, se vi capita di sbagliare sorridete, assumetevene la responsabilità ma ritirate anche come premio una occasione di apprendimento.

Thanks God it's friday.

mercoledì 10 novembre 2010

Volevo spostare i mobili in salotto.

Ieri sera mi guardavo attorno, in casa, e ho pensato: se cambio posizione ai mobili?
Prima di prendere e sbaraccare tutto attirando l'odio di Giulia e il pianto di Gaia ho cercato di visualizzare in mente eventuali nuove combinazioni.
Ovviamente pensando di sistemare e utilizzare quanto già presente.
Dopo un po' di elucubrazioni ho appurato che stava tutto bene così, che era la miglior combinazione possibile. La migliore possibile con quello a disposizione.
Il pensiero mi è rimasto in testa fino a questa mattina dove ho capito cosa era successo.
Ieri sera per me non aveva senso fare cambiamento poichè non ho visto possibilità di miglioramento.
Credo di essere già incappato in questa riflessione su questo blog ma in questo periodo ritorna per me molto forte.
Si sente continuamente parlare di cambiamento, esistono anche manaager che gestiscono il cambiamento.
Bene, a me il cambiamento non interessa. In troppi casi ho visto cambiare le cose solo per far vedere che c'era qualcosa di diverso, di nuovo.
Non mi basta più. Il cambiamento non è e non potrà mai essere un fine. E' un mezzo per il miglioramento.
Purtroppo la nostra necessità di mostrarci in movimento, di far vedere che siamo al passo coi tempi, con una società iperveloce ci ha troppo distratto da questa semplice partenza.
Troppe volte il cambaimento fallisce perchè comporta solo stress nella ricerca di nuovi adattamenti. Se non porta migliormaneto non può riuscire.
Il miglioramento poi è un altro concetto che andrebbe esploso, bisognerebbe capire bene cos'è per me miglioramento.
Dovermi abituare ad una nuova posizione del divano, ad una nuova posizone del telecomando perchè ho spostato il tavolino, ad una nuova luce mentre leggo in poltrona perchè ho girato il salotto può darsi sia uno sforzo non congruo con quello che posso e voglio fare.
Invece, se inserisco un tavolino che mi manca, se metto una libreria perchè così tengo ordinati i libri, se compro una lampada apposta per leggere e magari anche una tenda nuova per abbellir euna finestra allora cambio per migliorare ed il periodo di adattamento sarà funzionale.

Tutto questo per dire che se venite a cena da me i mobili sono ancora tutti al loro posto.

lunedì 8 novembre 2010

La maratona non ha record

Questa è la stagione della maratona di New York. Una volta presi l'impegno di correre l'edizione del 2011 ma ad oggi la vedo ardua.
Comunque, non è di questo che volevo parlare.
Anzitutto sapete che non esiste un record del mondo della maratona? Esiste un miglior tempo di sempre ma non un record. Questo perchè i tracciati non sono tutti uguali e i tempi non sono comparabili: cambiano la forma, alcune volte possono essere crcuiti, possono esserci dei dislivelli, ecc ecc.
Comunque, la miglior prestazione di sempre, ad oggi, è di Heile Gebressilase (chissà se l'ho scritto bene) uno che ha vinto tutto il possibile sui 5.000 e 10.000 metri.
Il suo tempo è di 2 ore 3 minuti e 59 secondi. Per fare 42195 metri. Mi pare l'abbia fatto nel febbraio 2008.
Ora, se leggete il tempo così può dire e non dire. Però pensate che la maratona significa sostanzialmente correre 100 metri per 422 volte (circa).
Bene, se considerate il tempo del grande Gebre, lui ha fatto i 100 metri per 422 volte consecutive, su fondo variabile, in 17,5 secondi circa. Mamma mia!!!!!
Letto così è impensabile. Come si fa!? Io credo di poter correre i 100 metri in 15 secondi. Sono abbastanza lento, lo ammetto. Ma caspita, correrli per 422 volte con quel tempo. Correrli consecutivamente per 422 volte!!!!!
Metteteci che all'inizio uno è freddo ed alla fine è stanco, ma nel mezzo che tempi riesce a fare!? Bene, cosa voglio dire? Non ne ho idea, volevo solo fare una riflessione semplice. Chissà cosa succederebbe ad andare ad inizio maratona da Gebre e dirgli "senti bello, adesso mi fai 422 ripetute sui 100 metri sotto i venti secondi, senza riposo fra una ripetuta ed un'altra". Forse sviene.
Chissà, forse alle volte scomporre troppo non aiuta, forse alcune volte i problemi vanno presi tutti assieme, forse bisogna solo iniziare a correre.
E qusto è un pensiero per me, che spero di ricordarmi: ogni tanto bisogna solo iniziare a correre.

domenica 7 novembre 2010

Volevo saper cantare

Ieri sera mi sono buttato a letto facendo riflessioni sulle prossime tappe di crescita di mia figlia.
Poi, come sempre, dopo un paio di minuti di lucidità, i miei pensieri sono esplosi in mille direzioni tipo una diaspora impedendomi di fare mente locale e di arrivare ad una qualunque conclusione. Mica che volessi produrre idee rivoluzionarie, solo volevo andarmi a letto con un po' d'ordine.
Pazienza.
Comunque, tutta questa esplosione mi ha riportato a quadno da bambino sognavo di avere dei superpoteri (niente male come volo pindarico....).
Ho riflettuto su come da piccolo il concetto di "essere speciale" sia molto legato all'avere caratteristiche utili, mentre col tempo mi sono concentraro sull'ESSERE speciale più che sull'AVERE caratteristiche che mi rendono tale. Persone molto più brillanti di me hanno già fatto questo ragionamento e non è questo che voglio approfondire. Anche perchè poi, sempre ieri notte, mi sono focalizzato sui talenti che avrei voluto avere ma che non ho.
Ok, mi sono molto confuso fra talenti che non ho e i talenti che non ho provato a sviluppare. Quindi ho pensato anche a caratteristiche che non ho ma che avrei potuto avere. Alla fine non è venuto fuori un grand'elenco, forse perchè comunque mi vado molto bene e cerco di migliorare quello che ho (o almeno non peggiorarlo) senza incantarmi e fossilizzarmi sul avrei voluto ma non è accaduto. Chissà se mi sono spiegato, ieri notte mi pareva un concetto chiaro.
Comunque, in primis mi sarebbe piaciuto essere uno di quelli bravi a scrivere. Invece non mi riesce bene, sono sempre poco lineare, molto "parlato" e arroccato. Quando comunico a voce con le persone sono effettivamente bravo ad esprimermi male ma a farmi capire ugualmente e quando scrivo un po' mi perdo. Mi sarebbe piaciuto saper cantare. Caspita, questo avrei prorpio voluto. Perchè cantare mi diverte, un sacco. Fra l'altro mi ci vedo proprio con un microfono e un pubblico. Mica uno stadio, mi andava bene il Ghinea. Invece ho un vocione da mostro delle caverne che va' bene per prendersi la ragione nelle dispute verbali ma poco per cantare. Avrei voluto essere un po' più alto, quei centimetri che mi mancano per essere 1,8 mt. Mi sarebbe piaciuto essere più coraggioso. La prudenza è una delle mie caratteristiche, sono sempre troppo controllato per non esserlo. Però un po' di coraggio...fare un po' lo scioccco sciando; fare i tuffi dalla palizzata o nel fiume senza sentirsi morire dentro. Insomma, quel coraggio che ci porta ad avere qualche cicatrice in più ma nessuna conseguenza seria.
Avrei voluto essere un calciatore migliore. Però da piccolo ho incontrato un allenatore che mi ha fatto odiare gli allenamenti e quello che faccio l'ho imparato al campetto (per la serie il mio ring è la strada). Invece ho un buon sinistro e se mi fossi allenato adesso sarei un ottimo ex calciatore da tornero amatoriale. Un giorno scriverò di quell'allenatore che ha fatto odiare il calcio ad un bambino di 5 anni.
Ad ogni buon conto alla fine non sono molte cose.
Ieri sera sono arrivato fin qui.
Stamattina mi son svegliato ed ho pensato che alla fine ho "solo" 32 anni, un calciatore non lo diventerò mai ma tante cose potrei propri farle.
Ok, quando avrò le ultime risposte taglierò la barba.

mercoledì 3 novembre 2010

PIACERE, MARY POPPINS: CONSULENTE FAMIGLIARE!

Ritrovo e pubblico un mio vecchio post.

Con l’espressione “sindrome di Mary Poppins” (che non ha alcuna validità scientifica o riscontro in letteratura) si intende identificare la tendenza che alcune persone hanno di fuggire davanti al lavoro routinario ove con questa connotazione non si intende una professione che si ripete simile o identica giorno per giorno o settimana per settimana, ma il lavoro che ha un certo livello di costanza, di prevedibilità, di tranquillità. Chi è caratterizzato da questa sindrome (che ribadiamo non ha nulla del patologico ma è semplicemente descrittiva di un comportamento ne più ne meno corretto di altri) ha l’irrefrenabile tendenza a fuggire dalle situazioni di stabilità. Solitamente queste persone si riconoscono sin dal curriculum: hanno sempre ricoperto ruoli di prestigio, di controllo, con alto potere decisionale e forte strategicità ma vi sono rimasti per brevi periodi, dall’anno ai cinque anni.
Questi individui hanno uno sviluppo di carriera inter-aziendale, accrescono il proprio ruolo passando da una realtà all’altra sempre alla ricerca di stimoli; mantengono buoni rapporti con le aziende in cui sono stati e spesso continuano a collaborarvi.
Proprio come Mary Poppins si muovono da una criticità all’altra e, proprio come la bellissima bambinaia interpretata da Julie Andrews, trovano la pace e l’equilibrio quando da dipendenti si trasformano in consulenti. Ormai il panorama italiano è pieno di “partite IVA” e di collaboratori che si offrono alle aziende come risolutori di problematiche più disparate ma il vero consulente, quello che esercita il proprio mestiere per passione, è inevitabilmente affetto dalla sindrome di Mary Poppins.
Come la famosa baby sitter anche il consulente ama le situazioni problematiche, viene chiamato dalle aziende in un periodo di burrasca e termina il suo lavoro superato questo momento, abbandona spesso la nave prima che questa cominci a godersi nuovamente la propria crociera portandosi via un sorriso soddisfatto ed uno strano borsone (in questo caso si spera colmo anche di vil denaro oltre che di esperienze ed oggetti fantastici).
In realtà Mary Poppins fa molto più di questo e chi è “affetto” dall’omonima sindrome, e ha come obiettivo raggiungere il livello di perfezione della tata del film Disney, deve ricordare che lei saluta la famiglia presso cui si è recata assicurando che non tornerà mai più, indicando alla stessa un modo per essere felice.
Il consulente dovrebbe dare le stesse garanzie, promettere che il suo intervento non sarà più necessario ed implementare un metodo (l’espressione metodo deve essere utilizzata nell’accezione più ampia possibile) per cui l’azienda riuscirà ad affrontare eventuali altri momenti di difficoltà in autonomia. In qualunque azienda può capitare di aver necessità della consulenza di una figura esterna, non condizionata dai vari elementi che compongono la cultura, la storia e la politica di una azienda, ma questo non deve essere la costanza; l’azienda deve trovare il suo equilibrio, sviluppare le proprie competenze e tecniche nella risoluzione dei problemi a questo deve contribuire il consulente che svolge completamente il proprio mestiere. Il consulente, libero di tutti i vincoli di sudditanza aziendale (si spera) è anche in grado di identificare i problemi dei bambini ma di educare anche i signori Banks, proprio come Mary Poppins. Non si limita ad intervenire su chi è manifestazione del problema, ma anche indicando a chi l’ha interpellata come migliorare a sua volta. Un fosso si fa con due rive e Mary Poppins questo lo sapeva.
Non è un caso che il consulente Mary Poppins sia stato scelto con l’annuncio della linea e non dell’alta dirigenza, continuando nella similitudine. Una delle prime valutazioni è proprio di capire quale consulente fra quelli che la direzione ha in mente è in sintonia con la cultura della linea su cui deve intervenire.

Ma torniamo alla nostra “sindrome”. Essere dei bravi consulenti fino al punto di avere in dotazione uno strumento che certifichi la propria perfezione non è facile, come per tutti i ruoli lavorativi è un insieme di caratteristiche, attitudini, capacità, predisposizioni, motivazioni (e qui mi fermo perché in tanti hanno già detto e scritto tante cose giuste). Imparare a riconoscere le proprie caratteristiche può aiutare nella scelta del proprio ruolo, nell’impostare la propria carriera. Molto importante è anche imparare a riconoscere le caratteristiche di chi ci sta di fronte, sia che esso sia un consulente o che sia un’azienda nostra cliente, perché ci permette di accettare più facilmente il ruolo degli altri, il valore aggiunto che possono dare all’azienda ed al nostro lavoro.
Essere come Mary Poppins o come Mr Banks è una scelta e in molti casi è dettata da reali attitudini e motivazioni, attitudini e motivazioni che possono rendere bravi consulenti ma che allo stesso tempo rendevano impiegati insoddisfatti o limitati (e viceversa, logicamente).

Mary Poppins è infatti un concentrato di dinamismo, capacità di gestire lo stress, di leggere e risolvere i problemi, è dotata di creatività, si assume senza problemi responsabilità e rischi, si mette continuamente in gioco, è propositiva, ma è anche una persona che ha bisogno di nuovi stimoli esterni, di cambiare spesso aria (in genere quando il vento gira), di poter staccare la spina finito un compito, non vorrei dire un’eresia ma non sappiamo se Mary Poppins sarebbe stata una brava maestra d’asilo o una brava bambinaia se avesse dovuto seguire per molto più tempo gli stessi bambini.
Mr Banks invece è una persona abituata tutti i giorni a crescere i suoi figli e a lavorare per la propria carriera in banca (comunque perseguita sempre nell’interesse dei figli) e che ha imboccato una strada sbagliata e ha bisogno di una indicazione. Ogni giorno però gestisce il proprio compito e dovrà continuare a gestirlo anche quando il vento girerà e Mary Poppins prenderà un’altra via.
Sono caratteristiche diverse che si adattano a ruoli diversi e che bisogna comprendere per trovare la giusta collocazione: l’incantevole bambinaia che tutti avremmo voluto ci aiutasse a prendere le medicine cantando e avesse contribuito a crescerci non era il genitore migliore del mondo, era la migliore Mary Poppins possibile.
Allo stesso modo il consulente che entra nella nostra azienda e deve collaborare con noi nella risoluzione di un problema non è la nostra copia perfetta ed infallibile, è molto bravo a fare il suo mestiere, molto bravo ad aiutarci coi nostri compiti.

Un’ultima riflessione: quando Mary Poppins arriva nella sua nuova casa (azienda) molto spesso incontra delle resistenze che lei è molto abile a fronteggiare e ribattere e delle situazioni di forte accettazione (come accade ai bimbi di casa Banks). Allo stesso modo il consulente incontra da una parte diffidenza dalla stessa azienda che a lui si è rivolta e dall’altra invece fiducia forse eccessiva.
Ripercorrendo lo schema del film si può dire che il consulente è facile, ma non automatico, trovi resistenze da coloro che deve aiutare e grandi aspettative da parte di chi occupa funzioni confinanti (magari con momenti collaborativi alla prima).

Basterebbe semplicemente ricordare che ognuno in queste dinamiche cerca di svolgere il proprio compito sfruttando il più possibile le proprie caratteristiche sapendo che molto probabilmente Mr Banks senza Mary Poppins non avrebbe riconquistato i suoi figli e la promozione in banca e che Mary Poppins in casa Banks non sarebbe resistita all’infinito. In fin dei conti il metro sul quale era riportato che lei era perfetta era il suo, può darsi che ci fosse un trucco, nessuno è perfetto, cerchiamo di ricoprire ruoli ottimali nel miglior modo possibile.

Le giornate ideali

Così giusto per capire oggi cosa mi piace fare. Naturalmente sono provvisiorie e variabili. Di fatto mi piace sempre avere in mente cosa vorrei fare. Quando non ci riesco ci riprovo. Quando ci riesco me lo godo.

Giornata festiva.
Sveglia, coccole, giochi e pernacchie sulla pancia nel lettone con Giulia e Gaia.
Colazione. Altre coccole con le pupe. Giretto in moto con gli amici per caffè collinare. Rientro per pranzo con racconti di mia mattina che si incrociano con racconti delle pupe. Passeggiata o giretto con le pupe in cui ci ribaltiamo di chiacchiere e magari Giulia fa pure un po' di shopping. Rientro con sosta al supermercato dei nonni per chiacchiere col nonno e tante coccole con la nonna.
Rientro a casa, preparazione per la serata, aperitivo con nonno Gianni e nonna Stefy e poi tre opzioni: Gaia dai nonni e cenetta con Giulia; cenetta con Gaia e Giulia; cena festa con tutti gli amici.

Giornata di lavoro.
Sveglia, coccole con le mie donne. Al lavoro in moto. Mattinata con riunione dalla quale si esce con una decisione condivisa e risolutiva. Pausa pranzo con telefonata alle donne e palestra. Pomeriggio con colloqui e attività di pianificazione. Rientro in serata, passaggio al supermercato per commento della giornata col nonno (moto, lavoro, politica, società). Rientro a casa con scorpacciata di donne e chiacchiere. Serata a giocare, leggere e pensare. Ultime chiacchiere nel letto prima di dormire.

Capitan Zanetti, Obiettivi ed emozioni

Ieri sera ho visto la partita. L’Inter ha perso ed ho sentito alcuni cronisti e giornalisti dire che è colpa dell’appagamento. I giocatori sono gli stessi, la scorsa stagione hanno vinto tutto e adesso, con la pancia piena, non sentono nuovi stimoli.
Riflettevo su queste affermazioni e ho pensato che secondo me hanno poco fondamento, temo.
Viviamo in una società che ci impone costantemente il raggiungimento di obiettivi. Abbiamo obiettivi annuali, trimestrali, mensili, periodici, di sviluppo, di crescita, personali, strategici, finanziari, di margine, temporali e chi più ne ha più ne metta.
Siamo costantemente orientati al perseguimento di obiettivi.
I più virtuosi con cui mi è capitato di dialogare hanno obiettivi eccellenti, ma è quasi un bluff linguistico.
Tornando alla mia cara Inter, sarebbe bello se i calciatori riuscissero realmente a godersi il raggiungimento di un obiettivo per tutti i mesi che gli stanno attribuendo i cronisti.
Mi piacerebbe se Capitan Zanetti, a giugno, commentando una stagione con pochi risultati dicesse: “ma vi ricordate cosa abbiamo fatto lo scorso anno, scusate per questa stagione ma ce lo dovevamo godere un po’. Personalmente è un decennio che sono qui e non vinco nulla, volevo un po’ godermela”.
Sarebbe bello sentire di qualcuno che realizza un obiettivo (professionale) e se lo gode.
Invece non sarà così a fine anno se non avremo vinto nulla non sarà per l’appagamento ma saranno state le motivazioni a mancare.
Penso infatti che motivazioni ed appagamento possano essere parenti ma non viaggino necessariamente in coppia.
Infatti, se il risultato non ha significato potrebbe giocare un ruolo importante sulla motivazione.
Penso a cosa sarebbe conseguire mensilmente dei risultati professionali (magari commerciali) che per me non hanno significato. Mi dovrei motivare per il fatto che l’ho raggiunto senza considerare importante il cosa ho raggiunto. La vedo dura, molto dura.
E se invece perseguo e raggiungo un obiettivo che per me ha valore?
Tornando all’inizio credo che ormai tutti noi ci dobbiamo confrontare con degli obiettivi, è lo strumento che usa la società per dirci che ci stiamo muovendo, che siamo parte di una evoluzione, che siamo dentro. Però questi obiettivi rischiano di impoverirsi, non dico di semplificarsi ma di impoverirsi. Un giorno mi è stato detto che raggiungere dei traguardi non basta più, devono avere significato. Bene, allora come faccio a dare significato ai miei obiettivi?
E qui torniamo la “bluff” dell’obiettivo eccellente. Bluff perché l’obiettivo eccellente non è qualcosa che si raggiunge e basta, è qualcosa che si raggiunge e si deve mantenere. Non ha un tempo, non ha una scadenza, deve essere subito e deve essere oggi.
Quindi un obiettivo senza scadenza, senza tempi, senza tappe? Gli rimane “solo” il significato, solo l’essenza dell’obiettivo in sé. È per questo che è un bluff, perché è uno stato da raggiungere e non un traguardo da tagliare. Il termine obiettivo forse è improprio.
Beh, ho ragionato a lungo su quale fosse la mia mission, quale il mio obiettivo. L’ho trovato. Sono una persona portata per il quieto vivere e per l’equilibrio. Mettere in equilibrio tutte le mie aree di vita è quello che mi porta ad essere felice. Mantenere le mie diversità di interessi, di attività, di relazioni e avere anche momenti di forte individualità, quasi di isolamento è quello che mi riempie la vita senza riuscire a saziarmi mai. Ed è incredibile come questo stato sia adatto a me, ad ogni cambiamento della mia vita.
L’arrivo di Gaia ha riempito la mia vita ma mi ha ridato tempo che non sapevo di avere per fare cose che mi appartengono. Ho scoperto che lei mi ha preso vita, cuore, spazi e tempo ma mi ha restituito il modo di avere altro tempo, altre attività, altri spazi. E questo ritengo sia per due motivi: il primo perché ho capito cosa cerco, non sempre trovo il modo di trovarlo, non sempre riesco ma ho capito cosa cerco; il secondo perché la mia bambina è un gioiello, mi ha fatto scoprire un nuovo modo di intendere i rapporti, fatti di emozioni pure, della totale incapacità di comunicare se non attraverso emozioni.