Cosekeso?

Ciao, questo è il mio blog, il blog nel quale ogni tanto svuoto la mia testa dai vari elementi che la riempiono.
Non c'è quasi nulla di originale, i miei pensieri sono rivisitazioni o rielaborazioni di quello che l'ambiente mi insegna e propone.

Se leggerai qualcosa "buona lettura", se non leggerai nulla "buona giornata"

ATTENZIONE: contiene opinioni altamente personali e variabili

giovedì 28 aprile 2011

Libero mercato e non mercato trasparente

Allora, questa mattina mi sono soffermato a pensare al libero mercato, in virtù di una bolletta che mi è arrivata.
Posto che sono contento che il mercato sia libero ma penso che libero e senza regole siano due cose distinte.
Mi piacerebbe si parlasse di libera competizione o comunque di mercato trasparente.
Mi spiego. Ecco quello che ho avuto modo di capire io, quindi potrebbe essere sbagliato.
ESEMPIO.
Io sono una grande azienda che offre servizi ai cittadini. Diciamo che ho 100 clienti che pagano i miei servizi 10 al mese. Io, ogni mese, incasso 1.000 e sono felice.
Arriva il libero mercato che ha lo scopo di far aumentare la competizione e calare i costi per i clienti....almeno così ho sentito dire.
Diciamo che altri vogliono proporre ai miei 100 clienti delle tariffe. Attenzione, il servizio in questione può essere erogato solo sui miei impianti, che ho costruito e che tengo a norma e sotto manutenzione con dei costi. Gli altri fanno solo la vendita.
Diciamo che questi competitor mi comprano delle linee per soddisfare 50 dei miei clienti. Dato che mi comprano in una sola botta 50 linee io li tratto bene e anzichè 10 li faccio pagare solo 4. Questo perchè gestire un solo cliente da 50 è più facile che gestirne 50 da 1. Bene, io da questa manovra incasso 50 per 4, cioè 200. Gli altri 50, se mantenessi la stessa tariffa, mi porterebbero 500, totale 700.
Ci rimetto 300, rispetto ai 1.000 di partenza.
Come faccio? trovo il modo di far pagare 16 ai rimanenti 50 in modo da ottenere ancora 1.000.
Il mio competitor nel frattempo rivenderà a 14 le linee che gli ho venduto, in modo da incassare 500. Io, il fatto che faccio pagare 16 anzichè 14 lo giustifico col fatto che le linee costano, che comunque io sono sempre io, quello che li segue e gli vuole bene da sempre.

I conti sono un po' incasinati ma l'esempio, sotto sotto, c'è.
Io capisco che chi ha la rete, chi deve gestire delle centrali, degli impianti, che li deve manutenzionare, li deve revisionare debba avere modo di tutelarsi ma mi pare che stiamo confondendo il libero mercato con la possibilità di dare a più aziende la possibilità di arricchirsi. E a capo di queste aziende ci sono sempre quei quattro fenomeni (questa affermazione è frutto di pura frustrazione da callcenter). Tanto il costo della vita aumenta, se le vostre bollette salgono un po' è sempre colpa del petrolio, di qualche arabo con i Rayban che apre o chiude un rubinetto, del costo della vita, della speculaizone immobiliare negli Stati Uniti. Certi costi sono sempre assorbiti dall'ineluttabile aumento del costo della vita.

Ok, oggi sono molto acido, infastidito e superficiale. Però ieri sera ho litigato con un callcenter...aspettatevi altri post sul tema.

martedì 26 aprile 2011

Violenza allo stadio e fiducia nel prossimo. Ottimismo


Due episodi abbastanza recenti per una riflessione.
Questa mattina ho scambiato una battuta con un collega che sabato è stato a Bologna a vedere Bologna Cesena di calcio. Partita importante per la salvezza del Cesena che il Cesena ha vinto due a zero.
Mi sono affacciato da lui per commentare l’impresa e lui mi ha detto che è stato bello vincere ma che è stato bloccato allo stadio fino alle 18.30, che ha visto gente che sanguinava, che volavano elicotteri, ecc ecc.
Il suo commento finale è stato che è triste pensare di rischiare una coltellata perché indossi la sciarpa della tua squadra. In effetti ha ragione.
Non smetto mai di schifarmi davanti a queste situazioni. Il mio collega non è un facinoroso, è un bravo ragazzo con la passione per il calcio.
Io ho la passione per l’Inter (adesso si spiegano molto cose relative al saper accettare i fallimenti) e mi piace un sacco andare a San Siro. Ricordo di averci portato anche Giulia che ne è rimasta affascinata. Aspetto il girono in cui potrò portarci Gaia. E mi rattristo. Mi rattristo perché ho già in mente che dovrò cercare la partita giusta, contro la squadra giusta, ecc ecc.
Ad esempio un bel confronto fra Inter e Cagliari, magari a fine stagione, con il Cagliari che non ha nulla da chieder e pochi tifosi in trasferta. Questi sono i ragionamenti che devi fare se vuoi andare allo stadio con una bambina. Che tristezza. Già, perché se San Siro è comunque emozionante mi si preclude la possibilità di vedere una bella partita per motivi di sicurezza. Ecco, magari anche Inter Cagliari potrà essere bellissima ma non sarà emotivamente significativa. Anche perché se lo fosse, mettiamo il caso che fra 5 anni l’Inter si gioca lo scudetto alla penultima di campionato contro la Juventus e se vince col Cagliari è campione d’Italia, sarebbe automaticamente a rischio. Perché in quel caso sarebbe pericolosa l’esplosione di gioia demente che in genere si abbina agli eventi calcistici. Non è sicura neppure la gente che esulta e festeggia. Almeno non lo sarebbe portarci una bimba di pochi anni. Quindi diventa appetibile andare a vedere una partita di scarso interesse, con poco carico emotivo. Sai che gusto.
Quindi la nostra società è questa, un insieme di individui pronti a darsele di santa ragione in nome di colori. E’ talmente contorto il tifo in Italia che arriviamo a situazioni paradossali: gli amici milanisti sanno che il mio rapporto con il Milan si è irrimediabilmente incrinato il giorno dell’addio al calcio di Maldini, quando i suoi tifosi l’hanno fischiato. Ecco, quell’episodio ha fatto balzare il Milan in cima alle mie antipatie calcistiche, prima pure della cara vecchia signora.
Come possiamo avere fiducia se un momento di aggregazione, divertimento e sport diventa una domenica allo stadio. Se per noi passione, passatempo, sport e gioco significa volti coperti, auto incendiate, botte, coltellate, ecc ecc.
Non voglio citare altre nazioni ad esempio, non voglio parlare di quando sono andato a vedere gli Yankees, dello stadio di Monaco, ecc ecc. Non lo farò.
Voglio riportare il secondo episodio.
Roma, quindi una delle città dove il tifo è violento, dove una coltellata fuori dall’Olimpico “ci può stare”, come disse quel tifoso con la gamba ferita.
Ecco, però siamo al Flaminio, è il 12/03/2011, c’è Italia Francia del sei nazioni di Rugby.
Una partita molto sentita, di quelle che riempie stadi e animi, non Inter Cagliari di fine stagione con gli obiettivi centrati per tutti.
Una partita importante, uno sport molto fisico, non una roba da fighetti.
Ho visto la partita in tv, carica emotivamente come poche altre cose, mi son ritrovato Gaia in braccio che spingevo il divano per guadagnare terreno.
Per chi ama lo sport, lo sport, non solo quello sport, è un momento esaltante. Fra l’altro la rivalità con i Francesi trascende ormai qualunque disciplina sportiva.


Bene, un mio caro amico era al Flaminio. Si è divertito un sacco, si è emozionato e ha condiviso con altri i momenti epici della rimonta. Ah, dimenticavo, non era solo, con lui c’era anche sua moglie, una donna allo stadio. E già questo non è normale, non è scontato, anche perché non sono “gente da stadio”, per loro non è consuetudine, non sanno e non conoscono.
Ah, dimenticavo un’altra cosa, caspita: lei oggi è incinta di otto mesi, allora lo era di sei.
Quindi esiste la possibilità di vedere lo stadio come un divertimento, un passatempo, una passione.
E fra l’altro parliamo della stessa gente, siamo sempre noi, Italiani quelli che si spaccano la testa perché una sciarpa è dei colori sbagliati ed Italiani quelli che ridono, urlano e festeggiano.
La differenza è la cultura e l’educazione che uno sport come il rugby insegna.
La materia prima è la stessa, cambia l’educazione.
Beh, quindi si può fare, non solo gli americani si divertono allo stadio.
Pensate a questo in modo allargato, c’è da essere ottimisti, in fondo.
Fra l'altro abbiamo la conferma che la massa può anche essere virtuosa, che anche le buone pratiche possono diffondersi come un contagio, non solo l'ignoranza. Non resta che scegliere.
Pare quasi facile.

domenica 24 aprile 2011

Lucianone Moggi, fallimenti e prima Repubblica

Alcune riflessioni sui fallimenti, ormai ho finito la lettura di HBR e smetterò anche con questo tema.
Altre volte ho parlato di errori, dell'importanza degli errori, dell'opportunità che sbagliare ci offre.
Oggi però aggiungo un altro elemento. La riflessione mi è venuta ieri sera mentre ero in fila che aspettavo le pizze d'asporto. Due signori distinti, sui sessanta abbondanti, commentavano la Juve e Moggi.
Da juventini delusi commentavano il declino di questi anni e ricordavano Moggi.
Non voglio entrare in polemica con gli amici juventini, i pensieri che seguono hanno un altro obiettivo.
Allora, partiamo da un assunto: Moggi è uno di quelli che di calcio ci capiva sul serio, probabilmente ci capisce tutt'ora. Chi era scettico l'ha visto quando i suoi uomini si sono allontanati da lui e hanno fatto fiasco: Lippi all'Inter, per citare un esempio che ancora mi fa sanguinare.
Ma torniamo a Moggi, vediamo se riesco ad arrivare in fondo al mio pensiero per capire se ha senso. Allora, Moggi costruisce una società seria, circondato da altre menti calcisticamente preparate e da qui allestisce una grande squadra. La Juve cresce e vince, più in Italia che all'estero in verità, ma vince tanto. Le altre non stanno a guardare e mentre i giocatori si riempiono la pancia le altre squadre fanno di tutto per colmare il gap. Arriva il momento in cui le altre diventano più forti e la squadra allestita e diventata squadrone, perde terreno.
Ecco, qui subentra il meccanismo per il quale un vincente non abituato a perdere cerca con ogni mezzo di continuare a vincere. Anche andando oltre le regole del gioco cui sta giocando. È tale l'incapacità di perdere che non esistono limiti.
Moggi ha fatto di tutto per non perdere. Ok, ci sono processi che magari smentiranno il tutto ma ad oggi è ragionevole ritenere che per continuare a vincere non tutte le azioni in capo alla dirigenza bianconera dell'epoca siano state in linea con i principi di sportività che il gioco prevede. Più elegante di così non mi viene.
Comunque, se pensate anche alla politica, non a quella attuale, è facile vedere come un vincente che non è abituato a perdere fa di tutto per non smettere di vincere.
Manipulite ha fatto pulizia (qualche secondo per sorridere amaramente di questa affermazione) di una classe politica ingorda e non abituata a fallire, pronta a disattendere o cambiare le regole per non perdere. Ovviamente questo riguarda esclusivamente la prima Repubblica.
Ecco, in ognuno degli esempi riportati c'è dell'altro, ricerca di potere, delirio di onnipotenza, brama di denaro, ma anche la disabitudine al fallimento, alla sconfitta rientra fra i fattori.
Ecco perché spesso parlo degli errori, dell'importanza di sbagliare, dell'opportunità di crescere con i nostri errori e delle chance di ripartire dopo una caduta.
Ed ecco perché sono contento di aver giocato a tennis da ragazzino: non sono diventato un fenomeno, non sono scolpito nel fisico ma ho imparato a perdere, a farlo da solo. Ho imparato a perdere anche senza migliorare, essendone il solo responsabile e confrontandomi con il mio fallimento. Ora non sarò mai un gran manager o cosa ma non ho più paura dei miei sbagli e non sono disposto a cambiare le regole per non farne.

Ovviamente se il futuro smentirà le ipotesi attuali circa le vicende calciopoli mi scuserò con Moggi e chi altro. Per ora funge da esempio.

giovedì 21 aprile 2011

Sfogo su individualismo e leader, è primavera.

« Un uomo solo è al comando; la sua maglia è biancoceleste; il suo nome è Fausto Coppi »(Mario Ferretti).
Questa è la frase che più spesso pronuncio quando sono davanti ad una persona che dovrebbe gestirne delle altre ma, messa in ombra dal suo stesso ego, non le guida come dovrebbe ma si focalizza su sè stessa.
La frase originale era rivolta a Coppi, un grande ciclista. Il ciclismo è un finto sport individuale ma, in quell'occasione, mancavano tre tappe alla fine del giro e l'intento era di esaltare il campione. In quel momento era lecito scorderei squadra e gregari, era un uomo, solo e al comando, gli seguivano.
Invece in azienda, al lavoro, è diverso, non può più esistere un uomo solo al comando.
Neppure gli imprenditori possono più permettersi di essere uomini soli al comando. Ricordo che una volta, mentre tiravo un carretto, mi hanno detto di spingerlo, che a tirare ci pensano i muli. Anche questo mi ha colpito e adesso ho queste due convinzioni: un leader non è un uomo solo al comando e soprattutto spinge i suoi, non li tira.
Ma perché? Alcuni di voi amici che leggete forse già state pensando che quello che dico ha senso ma perché? Forse lo pensate perché vorreste un capo che vi coinvolge e che risolve meno problemi (tira) ma supporta voi nel trovare la soluzione (spinge). È normale non volere un capo "somaro".
Questo è vero ma il motivo è anche un altro.
Viviamo in un'era globale, fatta di mille risorse, fatta di conoscenze, di network.
Abbiamo accesso al mondo. Trovare le risposte è più facile, possiamo "googlelare" ogni nostro dubbio. Dovremmo essere tutti in grado di essere uomini soli al comando. Cosa manca? Cosa ci impedisce di esserlo.
Lasciatemi introdurre un concetto a me caro e molto semplice: l'approccio sistemico. Banalizzo, secondo questo pensiero la somma delle singole componenti è superiore alla pura somma algebrica. Ri-banalizzo: due uomini sono più produttivi di un uomo più un uomo. Molto banalizzato ma mi serve così.
Bene, già questo potrebbe bastare, mettersi a sistema con gli altri aumenta il nostro potenziale.
Non solo.
La riflessione che mi viene in mente è che anche il contesto in cui viviamo è sistemico, che anche i problemi e le domande nascono in questo mondo complesso, con queste complessità. Essere specialisti non basta, è necessario essere in grado di mettere a sistema le nostre conoscenze perché possano fondersi con altre nella ricerca di una soluzione superiore, per problemi di complessità superiore.
Ecco, questo dovrebbe fare il leader, facilitare l'incontro di specializzazioni diverse, coordinandole per io bene comune, per la soluzione comune.

mercoledì 20 aprile 2011

Gattuso, Ferrer e lo spirito di sacrificio

Sto rivedendo in tv la finale del torneo di tennis di Montecarlo dove Nadal ha sconfitto Ferrer e si è aggiudicato il torneo per la settima volta.
Durante la telecronaca i due commentatori SKY esaltano la sportività di Ferrer, il suo aver capito appieno lo spirito del gioco.
Ferrer è un difensore, uno di quelli che, se non fosse un professionista, chiameremmo pallettaro.
Ad un certo punto la voce femminile al commento (Pero?!?) dice "Ferrer ha grande spirito di sacrificio. Forse non ha avuto il talento cristallino di altri ma con il lavoro ha raggiunto livelli altissimi ed è stabilmente fra i primi dieci". A questo punto fa una pausa e dice una delle frasi più intelligenti che abbia mai sentito: "fra l'altro non vedo cosa ci sia di male, ogni tanto lo spirito di sacrificio viene visto in senso negativo e non capisco perché. Cosa c'è di male a mettere impegno nel proprio lavoro?".
Stupenda.
A questo punto mi sono affiorati aneddoti: il compagno di classe che preferiva dire di non aver studiato e di essere stato fortunato piuttosto che ammettere di aver studiato un sacco ed essersi impegnato; il compagno di squadra che nega di essersi allenato e preparato per una partita. Quante volte mi è capitato di sentire nascondere lo spirito di sacrificio. Pare che sia un disonore ammettere di essersi impegnati.
Sembra che in Italia se non sei Gattuso non puoi ammettere di farti il mazzo per quello che ti piace. Pare una colpa impegnarsi e pare una colpa che il lavoro sia qualcosa che ci piace.
Guai ad impegnarsi, siamo un popolo di talentuosi. O sei universalmente riconosciuto come un giocatore mediocre (Gattuso, non me ne vogliano i milanisti) oppure non ti devi sacrificare, scherzi. Anzi, adesso stiamo vedendo che anche se non hai alcun talento cristallino non è necessario sacrificarsi, i sacrifici, l'impegno sembrano sempre più cose che i nostri nonni e genitori hanno fatto perché a noi non debba mai accadere.
Credo che la mai nuova "campagna" sarà sdoganare lo spirito di sacrificio che da oggi chiamerò "gioia dell'impegno". Chissà, magari certe scorciatoie ci piaceranno meno.

Vai alla grande o vai a casa


Una delle riviste periodiche che ogni tanto mi piace leggere questo mese è incentrata sul fallimento.
Si parla di apprendere dagli errori, di fare gli errori giusti, di lasciare lo spazio ai propri collaboratori di sbagliare. Ci sono anche una serie di citazioni molto interessanti, uno dei più illuminati su questo tema è sicuramente W, Churchill che in più occasioni ed in più momenti ha manifestato la propria apertura verso l’apprendimento derivato dall’errore.
Leggendo le diverse citazioni ce n’è una che mi ha colpito particolarmente ed è quella di Linda Rottenberg (a voi scoprire di cosa si occupa) che dice “vai alla grande o vai a casa”.
Perché mi ha colpito?
Viviamo in un mondo di numeri uno, di leader indiscussi di mercato, di importanti punti di riferimento per i competitor. Tutti siamo focalizzati sull’ andare alla grande, sul centrare i nostri obiettivi, sullo stare sul pezzo, chiudere i cerchi, ecc ecc.
E’ importante avere questa pulsione al successo. Recentemente ho letto biografie di personaggi del mondo industriale che hanno fatto di questa pulsione la loro forza.
Borghi della Ignis, per citarne uno, era un mostro di energia, otteneva e prendeva tutti i risultati che erano di suo interesse, senza darsi mai tregua. Ha costruito un impero, ha insegnato il lavoro all’Italia ed al mondo poi è stato rilevato dagli olandesi della Philips, per non dire salvato.
Dalla sua biografia emerge che è sempre andato alla grande, che non ha mai lasciato ma a sempre raddoppiato. Quando è stato il momento di andare a casa non ne era capace.
Bene, con queste poche e sciocche righe non voglio fare un inno alla rinuncia, ritengo che ci siano ben pochi limiti ai traguardi che una persona si può prefiggere. Penso che con le giuste condizioni, motivazioni, emozioni e capacità ogni obiettivo diventa perseguibile.
Ritengo però che prima di decidere di andare alla grande bisogna capire bene se non sia il caso di andare a casa.
Cerchiamo di capire quali sono i reali obiettivi della nostra vita, cerchiamo di capire se è importante per noi fare carriera, fare soldi, avere tempo per noi, essere famosi, avere potere.
Se non individuiamo chiaramente cosa è importante per noi non riusciremo mai a capire se è il momento di andare alla grande o andare a casa, ci focalizzeremo sempre sull’idea del raggiungimento del traguardo, sull’andare alla grande. Invece il nostro focus non deve essere raggiungere il traguardo ma il traguardo stesso. Non è importante chiudere un cerchio perché lo si è aperto, lo si è aperto perché era importante chiuderlo.
Non è come partire per un viaggio dove il tragitto è già un piacere, in questo caso il tragitto è accessorio alla meta, a quello che vogliamo perché per noi è importante.
Allora sì che potrò andare alla grande, diversamente andrò a casa.
Non so se mi spiego, beh, comunque mi son spiegato con me stesso e mi basta.

sabato 16 aprile 2011

Una giornata in foto.

Racconto fotografico di un normale venerdì.
L'idea era quella di scattare foto in ogni momnto della giornata e metterle assieme.
Si tratta di una giornata normalmente eroica, come quelle di ognuno di noi che cerca di essere fondamentalmente felice e sorridente.

Alcune info sul mio venerdì: sveglia alle 6.30, al lavoro alle 7.48, niente pausa pranzo, almeno 4 volte a fare pipì in ufficio, uscito alle 17.30 da Forlì, impiegata un'ora per arrivare in ufficio a Ravenna, uscito da ufficio Ravenna verso le 19.30 e poi tornato dalle mie donne per sorridere.

venerdì 15 aprile 2011

Insuccessi, resilienza e ottimismo. 'na roba seria

Resilienza.
Quando ho incrociato questo termine in psicologia mi è subito piaciuto.
Prima il suono e poi, una volta scoperto, il significato.
Detto in termini molto riduttivi la resilienza è la capacità di riacquistare la forma originaria dopo un evento che ha determinato un cambio di forma.
Lo si dice anche di alcuni materiali che hanno la capacità, dopo un urto, di riprendere la forma originaria.
Un articolo su HBR di Martin E.P. Seligman mi ha dato l'occasione di riconsiderare il termine e di parlarvene.
Allora, la resilienza, che in ingegneria ha un significato differente, è la capacità di superare le avversità, le negatività. È, in un certo senso, la capacità di incassare il colpo.
È una caratteristica importante, anche perché gli insuccessi non sono un'opzione ma una componente inevitabile della nostra vita. Riuscire a superarle è importante.
In linea di massima, chi non si rassegna, chi non si fa dominare dalla negatività, è chi riesce a circoscrivere l'evento negativo in un luogo o in un tempo.
Fra l'altro suona bene anche come definizione di ottimista.
Bene, dicevo che la resilienza mi è sempre piaciuta, anche come suono ma oggi ne ho visto il limite.
Cioè, è diversa la resilienza dalla crescita che un insuccesso ci offre l'opportunità di fare.
Non mi basta più la resilienza, voglio poter crescere davanti ad un insuccesso, non mi basta più non deprimermi, non rassegnarmi, cercare di tornare a com'ero prima. Voglio far sapere a tutti i miei insuccessi, a tutti i miei errori che io li sfrutterò, li userò e ne uscirò migliore.
Ah, se volete sapere come si può fare...... Esercitate l'ottimismo, nella vostra anima, nel vostro cervello (che è una figata) e col vostro corpo, siate ottimisti col corpo, funziona.

domenica 10 aprile 2011

Perché votarmi come sindaco...

Eccoci qua, fra un mese e poco più si vota per il sindaco.
Ecco alcuni motivi (chissà se ne metto assieme 10) per i quali potreste votare me.
Ok, non mi sono candidato ufficialmente ma costa.
Però ecco lo stesso i motivi per cui votarmi:
1. Non alcun appoggio politico, quindi sono obbligato a scegliere il male minore o il bene migliore in ogni scelta. Diversamente sarei velocemente linciato
2. Non ho alcun curriculum politico alle spalle però ho buon senso e questo è raro (ho testimoni che possono confermare questa affermazione)
3. Più che ravennate mi sento romagnolo e questo non credo sia affatto male
4. Io e mia moglie crediamo in due divinità diverse (mezzo cattolico io e buddista lei) ma siamo molto spesso allineati su ciò che riguarda i nostri valori, ciò che è bene e ciò che è male, ci ascoltiamo e cerchiamo di capire.
5. Se leggete i miei vari post avrete modo di sapere chi sono
6. Se leggete i miei vari post avrete modo di sapere cosa penso
7. Ho una figlia di sei mesi, mi sento il dovere di rendere questa città eccellente, non mi basta sia buona o ottima
8. Ho 33 anni, non mi basta pensare a qualcosa di buono per i prossimi tre, quattro o cinque anni, mi interessa valutare come impattano i miei lavori fra dieci o più anni
9. Non so fare a fare politica ma sono bravo a scegliere le persone con cui consigliarmi e mi confronto spesso con gli altri.
10. Beh, avevo detto che cercavo di arrivare a dieci: Ravenna avrebbe un sindaco più giovane di quello di Firenze, sarebbe come "fregargli" Dante una seconda volta...

A parte gli scherzi, vorrei che il mio sindaco avesse i punti 7 e 8, ovvero che volesse essere eccellente e che si interesse agli impatti del suo lavoro fra dieci o quindici anni.

mercoledì 6 aprile 2011

Arma di controllo dell'umanità

Dopo giorni di Abu Dhabi eccomi di nuovo a Dubai.
Fino ad un anno fa forse non avrei saputo dire la differenza fra le due località.....
Comunque, in questi giorni, specialmente perchè parlo in maniera discontinua una lingua non mia (Inglese) mi sono soffermato a fare una riflessione.
Dopo attenta analisi ho concretizzato un pensiero che mi ronzava nella testa da molto tempo.
Ho scoperto l'arma che permette di tenere sotto controllo le persone, che ti permette di sapere tutto di loro, di capire cosa dire, come chiedere, ecc ecc. E' uno strumento che permette di controllare l'umanità.
Si chiama ascolto.
Ascoltare e sentire le persone con attenzione aiuta ad avere tutte le informazioni necessarie per potersi relazionare in maniera costruttiva con gli altri. Le relazioni sono il modo migliore per creare valore aggiunto. Se si presta attenzione ai nostri interlocutori si ha l'occasione di raccogliere mille informazioni utili per la relazione che vogliamo avere sia essa commerciale, amichevole, formale, informale, utilitaristica, ecc ecc.
"Prestare attenzione" è più corretto di ascoltare, per definire quello che intendo, il concetto che voglio esprimere.
Come dicevo all'inizio, parlottare inglese in questi giorni mi ha aiutato a capirlo. Già perchè non essendo madrelingua ma avendo il livello di conoscenza della lingua che mi permette di sopravvivere decentemente, devo prestare molta attenzione a quello che il mio interlocutore dice, spcialmente quando la sua pronuncia è diversa dalla mia o quando la costruzione delle frasi non è come la mia.
Questo ha evidenziato il fatto che l'ascolto è molto importante ma mi ha fatto capire che una eccessiva concentrazione sulle parole mi toglie spazio per il "prestare attenzione".
Questo mi ha in parte indispettito perchè mi piace dedicare risorse ai contenuti vari ed eventuali della comunicazione e mi riusciva esclusivamente quando ero terza parte in una discussione e quindi potevo cogliere il significato more or less ma potevo dedicarmi al resto. Fra l'altro sono state le volte in cui non mi è sfuggito contenuto ma ho appreso informazioni e sfumature che non avrei potuto notare.

Ora che vi ho svelato l'importante segreto del "prestare attenzione" conservatelo gelosamente. Fra l'altro questo è il motivo che rende internet più potente della televisione, la TV non ascolta, internet sì, in mille modi diversi.
Ah, se volete fare un bell'esercizio cercate di creare delle relazioni con un bimbo piccolo, mia figlia oggi compie sei mesi (ti amo cucciola) e cercare una comunicazione con lei, prestarle attenzione apre riflessioni interessanti.

Sto tornando, a presto

domenica 3 aprile 2011

Il coraggio del bello

Eccomi qua, terzo post da Abu Dhabi.

Anche oggi si è lavorato un sacco, girato molto e sono un po' stanco.
Mi accingo a scendere per cena ma prima una veloce riflessione.
Oggi sono stato a Dubai che ho scoperto essere come Abu Dhabi ma senza traccia di verde, almeno per quel poco che ho visto.
Sono comunque in posti fantastici (nel senso che vengono dalla fantasia), dove c'è grande fermento, anche ora che gli invesitimenti sono un po' più parchi per via della crisi.
Però fervono i cantieri e svettano ovunque le gru, ormai parte insostituibile dello skyline.


Ho incrociato molte costruzioni avveniristiche, palazzi inclinati, circolari, attorcigliati. Ogni anno Abu Dhabi e Dubai si rispondono a suon di record costruttivi. La complessità maggiore è sicuramente il territorio, molto complesso, anche per via del caldo.
Però quello che è costante è l'impegno a far delle cose belle.
C'è il Ferrari World, stupendo, l'Hotel del circuito (YAS Hotel), clamoroso e mille costruzioni senza particolare fama che comunque sono belle.


In parte perchè nuove, è indubbio, ma in parte anche perchè coraggiose.
C'è la voglia di abbellire e non solo di costruire, c'è un progetto che è oltre la singola costruzione, c'è del coraggio.
Fra l'altro la costruzione che mi ha colpito di più è stata la moschea, splendida e candida, un vero omaggio agli occhi.
Ma perchè non possiamo essere anche noi coraggiosi?
Son sicuro che non necessariamente il bello sia più costoso, basta solo volerlo fare. I soldi degli emirati servono non perchè le costruzioni sono belle ma perchè c'è poco tempo, perchèspesso sono difficili le condizioni di partenza e perchè nessuno le ha mai fatte.
Certo, in Italia l'unico esempio moderno di costruzione veramente bella dev'essere costato un po', mi riferisco al ponte di Calatrava a Reggio Emilia, ma quant'è bello passarci sotto con una bella giornata o anche di notte.
Ecco,io credo che in una nazione con la nostra cultura e la nostra storia dell'arte non sempre serva Calatrava per fare qualcosa di bello, avolte basta avere il coraggio.


Nota a margine non congruente col resto (?!): fra le notizie del Gulf News trovo spesso riferimenti a notizie sull'istruzione, anni accademici che partono, nuove iniziative formative, nuovi campus che aprono, ecc ecc.

sabato 2 aprile 2011

Aiutare gli altri, l'esempio di Giulia

Eccomi di nuovo nella mia camera emiratina a pensare all'Italia e a scrivere.
Sono le 22.35 ora Italiana, più due per me.
Sto pensando all'aiutare la gente, al come farlo.
Ma facciamo un passo indietro fino a due giorni fa.
Durante il lungo ma piacevole volo fino ad Abu Dhabi mi sono visto un film molto interessante: il discorso del re.
In questo film Helena Bonan Carter appare per una volta non deformata dalle idee visionarie di Tim Burton e ricopre il ruolo della moglie di Re Giorgio VI.
Ecco,nove anni fa Giulia, più o meno in questo periodo e per qualche strana ragione, accettava di uscire con me.
Da allora molto è accaduto e molto per merito suo.
Giulia, così come la Bonan Carter nel film, è per me un elemento di incredibile coraggio.
E' per la gelosia di questo segreto che così poco ho parlato di lei in queste web-pagine.
Lei, per tornare al paragone col film, non risolve tutti i miei problemi ma asseconda i miei stati d'animo infondendomi fiducia.
Lei non è la soluzione ai problemi che la vita mi propone (fortunatamente sempre piccoli) ma è la lente che li rende piccoli, che mi guida, che mi indica dove trovare le energie. Non indica la strada, indica la forza per percorrerla. E' questa la sua forza, o almeno una delle sue forze.
Perchè infondere energia, fiducia e coraggio non la stanca mai.
Non potrà mai sbagliare la strada da indicarmi perchè lei ha fiducia in me, non mi indica la strada, mi ricarica affinchè possa riuscirci io.
Ecco, questo vorrei imparare a fare.
La regina del film appoggiava fiduciosa ed energica il re, Giulia,senza che io sia re di nulla, mi appoggia ed incoraggia sempre.
Io vorrei fare così, smettere di consigliare e semplicemente supportare.
Grazie Cookie, vorrei riuscire in un decimo di quello che fai per me

Pronti a rinunciare

E' da ieri che mi ronza in mente una riflesione.
Non è ancora del tutto matura ma ci provo lo stesso.
Da qualche tempo mi sono dedicato alle biografie dgli uomini che, grazie al loro intuito, hanno creato grandi business. Si tratta di famiglie (Barilla,Borghi) o grandi imprenditori che hanno creato piccoli e grandi imperi.
L'Italia ne è piena e in genere li accomuna una grande genialità, intuito, fortuna e tanta determinazione. Ne fa sicuramente parte anche Berlusconi (ricordate vero che mettere il suo nome fa aumentare i contatti, un po' come se adesso scrivessi Marchionne o Belen senza alcun senso per il resto del post)
Molte di queste caratteristiche di questi uomini sono proprie della nostra cultura, aggiungiamoci anche l'arte di arrangiarci, una certa furbizia ed un forte individualismo, quasi uno spirito di competizione, una voglia di prevalere, di emergere.
Ecco, questi ultimi aspetti sono, a mio avviso, il motivo che ci rende grandi uomini ma non ancora grande nazione. Il nostro bene, la nostra sopravvvienza ancora prevale sul vantaggio comune.
Siamo ancora quelli che davanti ad una manovra di governo andiamo a vedere quanto questa impatta sulla nostra vita di singolo, per giudicarne la bontà. Una cosa è negativa o positiva per quanto invade il mio orticello. Non riusciamo a vedere oltre noi stessi, se non fa il nostro bene non ci piace.
Poi però, davanti alle telecamere diciamo che siamo pronti ad aiutare, a stare uniti(come insegna Morandi), a fare il bene di molti, se non di tutti.
Ecco, allora voglio chiudere con una domanda: a quanto siamo disposti a rinunciare per avere di più?

Il mio primo post dall'estero. Torno molto presto,non temete