Cosekeso?

Ciao, questo è il mio blog, il blog nel quale ogni tanto svuoto la mia testa dai vari elementi che la riempiono.
Non c'è quasi nulla di originale, i miei pensieri sono rivisitazioni o rielaborazioni di quello che l'ambiente mi insegna e propone.

Se leggerai qualcosa "buona lettura", se non leggerai nulla "buona giornata"

ATTENZIONE: contiene opinioni altamente personali e variabili

giovedì 30 dicembre 2010

Ottimismo e 2011.

Ho appena terminato una lettura molto interessante e ho deciso di ricordarmene spesso nel corso del 2011.
Si tratta di un brano del “dizionario dell’ottimista” di Langensheidt.
Sono da sempre convinto che il nostro atteggiamento influenzi direttamente i nostri risultati, non per una strana magia o alchimia, semplicemente perché un atteggiamento positivo rende accessibili i risultati.
La riflessione di partenza di Langensheidt è tanto semplice quanto illuminante: nasciamo consapevoli che prima o dopo moriremo ma, nonostante questo, viviamo la nostra vita. Solo un essere capace di ottimismo potrebbe accettare questa condizione e vivere ugualmente la propria vita alla costante ricerca dello stare bene. Perché devo lavorare sulla mia crescita se sono consapevole che prima o dopo morirò? Perché sono un essere ottimista.
Fra l’altro, per quanto in molti di noi un atteggiamento ottimista richiami la stupidità, sono molti i grandi pensatori che si sono occupati di ottimismo.
Lutero diceva: “se sapessi che domani il mondo finirà, pianterei ancora un albero di mele”; Immanuel Kant “il Cielo ha dato tre cose all’uomo per bilanciare el tante fatiche della vita: la speranza, il sonno ed il riso”; Primo Levi, uno che ha deciso di vivere anche quando era impossibile trovare motivi per farlo, ha detto che “tutte le speranze sono ingenue, ma noi ne vivevamo”.
Questo solo per citarne alcuni.
Io sono spesso sorridente, alle volte lo sono forse troppo, o forse lo sono troppo presto.
Comunque ho deciso di non far più caso all’inopportunità di questo mio atteggiamento.
Essere sorridenti, positivi e ottimisti non significa necessariamente essere superficiali e approssimativi. Alla base di ogni grande cosa realizzata c’è stato qualcuno che ha creduto che fosse possibile, con speranza e ottimismo. Per quanto fosse impossibile, per quanto altri la ritenessero non praticabile, per quanto altri prima di lui avessero magari fallito, chi c’è riuscito ha creduto di poterlo fare. Essere ottimisti non esclude la possibilità di fallire, anzi, ma accresce la possibilità che da questi fallimenti si apprenda, si impari.
Credo che se non altro la persona ottimista sia dotata di energia, di voglia di fare. Non ho mai visto una negativo con troppa energia addosso.
E poi, come dice Langensheidt, essere ottimisti è nella nostra natura e migliaia di anni di evoluzione non potranno sbagliare.
Ho deciso di leggermi la biografia di alcuni personaggi del ‘900 e di questo inizio di nuovo millennio, Olivetti, Borghi e Jobs, credo che troverò in ognuna di queste biografie un accento di ottimismo. Credo che ognuno di loro avesse una visione, oltre che capacità cognitive rilevanti, e che questa visione avesse un forte accento positivo. Non credo fossero guidati dalla convinzione di fallire o dalla consapevolezza dell’inutilità dei loro sforzi.
E hanno cambiato, magari solo in parte, il mondo.

Quindi, caro 2011, asseconderò la mia natura che mi porta inevitabilmente all’ottimismo.
Quindi, se mi vedrai sorridere nei momenti in cui mi metterai alla prova vorrà dire che sarò prossimo a farcela, qualunque prova sia.

mercoledì 29 dicembre 2010

Manifesto programmatico personale

Oggi vagando per internet ho trovato una società che ha sviluppato una mia idea. Anzi un' idea di mio babbo.
Mannaggia, ho pensato. Poi mi sono venute in mente tutte le cose cui ho pensato, nel corso della mia vita e che altri hanno realizzato.
Pare una cavolata ma, a titolo di esempio, cito la lavatrice col serbatoio per detersivi e ammorbidenti.
Forse perché sono con la testa fra le nuvole mi capita di pensare a tante cose e di vederle poi concretizzate da altre.
Beh, ho deciso di essere meno platonico, di tenere meno distinto il mondo delle idee da quello della realtà. Ho deciso che le idee le terrò distinte in due categorie: quelle che si concretizzano e quelle che non sono interessanti.
Il blog nasce anche per questo, per liberare la mente e vedere quello che penso concretizzato.
AltriMenti, a furia di arrivare secondo, finisco per fare come i giapponesi che sono maestri nel migliorare il già esistente. Ohi, in realtà potrei fare anche questo, in fondo se l'idea l'ho avuta anche io, non potrò che migliorarla dal confronto con altri.

lunedì 27 dicembre 2010

La mia lista 2010.

Questa parte finale dell’anno ha reso di moda gli elenchi, grazie alla trasmissione di Fazio e Saviano.
Beh, questo è l’elenco delle cose che non dimenticherò mai del 2010, random, come vengono, senza priorità.

1. La telefonata di Giulia che mi dice che aspettiamo un bambino, la mia gioia e il mio disorientamento;
2. L’estasi dei nostri genitori quando gli abbiamo detto che sarebbero diventati nonni;
3. Il senso di impotenza e di forza provato quando mi hanno messo in braccio Gaia;
4. La paura e l’ansia durante i 30 minuti dell’intervento per farla nascere;
5. L’abbraccio in ginocchio sul divano fra mio babbo e me quando l’arbitro ha fischiato la fine della partita Barcellona Inter di Champions League;
6. La solitudine festosa che ho provato quando l’Inter ha vinto la Champions e il mio compagno di tifo era lontano;
7. La salita alla Bolognola in moto;
8. Il Grossglockner in moto;
9. Quando son salito per la prima volta sulla Baroness;
10. Ogni istante della gravidanza di Giulia, la sua felicità contagiosa;
11. La notizia del malore di Paolo;
12. La morfologica;
13. La vacanza in Puglia, in un posto terribilmente sgarruppato ma che resterà una favola;
14. La prima corsa al pronto soccorso con Gaia con la febbre;
15. Il senso di gratitudine verso Giulia che con la sua sensibilità ha salvato nostra figlia;
16. Il senso di amicizia e leggerezza della braciolata dal faro dell’estate;
17. La pace che mi ha dato il deserto in Algeria a febbraio, probabilmente perchè mi dava la possibilità di pensare alla mia nuova paternità;
18. La spensieratezza delle chiacchierate nell’interfono col babbo;
19. La gioia per la vittoria della Schiavone in Francia;
20. la tensione al lavoro i primi tre mesi dello scorso anno;
21. L’amarezza per il declino del mio stato fisico;
22. L’emozione per i primi feed back di questo Blog;
23. La soddisfazione per ogni iniziativa dei Motociclisti da Tavola;
24. Le chiacchierate algerine con Alessandro su mafia, politica e Italia;
25. Le telefonate ai miei genitori e ai miei suoceri quando è nata Gaia che mi hanno fatto capire ancora una volta che miracolo fosse;
26. La telefonata di Gianni il 07/10/10 e la grande felicità;
27. Lo stupore la prima volta che ho acceso l’iPhone 4;
28. Vedere i due nonni scherzare con Gaia la sera di Natale;
29. Il saluto di Giulia ogni mattina e la speranza che mi infonde;
30. La paura e l’angoscia di non potercela fare a diventare babbo;
31. La rabbia di scoprire che era quasi impossibile diventare genitore;
32. La determinazione inattaccabile di Giulia nel difendere la sua felicità;
33. La nuova fiducia dopo avercela fatta e il sollievo subito dopo;
34. La sensibilità di mia mamma che si sintonizza subito con Gaia;
35. La genuina emozione di mio suocero;
36. Il nonno volante;
37. L'emozione di Stefania che abbraccia Gaia come se fosse l'unica bimba che abbia mai visto;
38. Casa mia che adesso è la mia tana e il mio nido;
39. La grinta e la gioia provata quando ho saputo che adesso Benbio era la mia famiglia e che le cose se vogliamo le facciamo girare sempre.

domenica 26 dicembre 2010

Piacere, sono il tuo vicino

Vivo in una via di casa singole o abbinate. Massimo 4 nuclei per immobile.
La mia casa è condivisa con un'altra famiglia e a destra e sinistra ho due case singole. Vivo qui da 30 anni, mi ci sono trasferito da piccolo e ho cacciato i miei genitori qualche anno fa trasferendoci la mia nuova famiglia......
Riflettevo sul fato che non conosco il nome di nessuno dei miei vicini.
Mia nonna conosce il nome, il cognome e la storia di tutti quelli che abitano nella sua via in un raggio di 500 metri.
Io conosco il cognome di quelli che vivono sopra di me. Fra l'altro conosco il cognome di lui, non di li.
Ho un soprannome per ogni vicino, ovviamente ma non ho i loro nomi.
Quindi non è che io non sia curioso, anzi, seguo con attenzione le cose che accadono. Semplicemente mi tengo lontano.
Il mio campanello non funziona e mi guardo bene dal ripararlo.

E se l'integrazione e la biodiversità cominciassi a farla coi miei vicini?
Forse mi sparerebbero.
Forse prima di guardare molto lontano e dire che arrivarci è difficile sarebbe meglio fermarsi ai nostri vicini e dire che non ne abbiamo voglia.
Rispetto a mia nonna ho più strumenti, più consapevolezza ma meno integrazione.
Vedo, ogni tanto, l'abitudine di fronte ad un problema che non incuriosisce o non invoglia, di raddoppiarne la grandezza per renderlo impossibile. O almeno per renderlo abbastanza grande da rendere il non impegno legato alle percentuali di riuscita e non alla pigrizia.
Mi spiego meglio, se dobbiamo fare una cosa, tutto sommato abbastanza alla nostra portata ma che non ci interessa, ecco cosa può accadere, ecco cosa ho visto fare e, a volte, ho fatto: svisceriamo il problema, lo studiamo, lo smontiamo, lo rimontiamo, lo guardiamo dall'alto, da un lato, applichiamo tutte le tecniche di problem solving in nostro possesso. Fin qui niente di male, da fuori sembriamo seri professionisti all'opera, solo che lo scopo è quello di trovare una complicazione, una difficoltà, un appiglio che renda impraticabile affrontare la questione.
Se avete un piccolo problema e non lo affrontate siete pigri, svogliati ma se riuscite a farlo diventare grande allora è diverso, non sarà più colpa vostra. Semplicemente ci vorrà più impegno e forse non sarà il momento, avrete altro da fare.
Il problema è continuare a fare così sempre, complicarsi la vita con aggiunte fatte da noi, con virtuosismi inutili.
Nella vita è sempre meglio togliere (anche in cucina e nella moda si dice così...), sempre meglio semplificare, anche se più difficile.
Buone feste

venerdì 24 dicembre 2010

Buon Natale GAIA



Questo sarà qui ad aspettarti per quando sarai grande.
Forse ti darò mille consigli ma questo sarà sempre il più importante.

Questo è il mio regalo per il tuo primo Natale piccolina mia.

Buon Natale Gaia.

Il tuo Babbone

giovedì 23 dicembre 2010

La coerenza non è roba per me.

Io non sono una persona coerente e non mi vergogno a dirlo.
Credo che il concetto di coerenza, almeno come siamo abituati ad usarlo, sia sovrastimato.
Per forza, direte voi, non lo sei…. In parte è vero.
Sono una persona influenzabile, se le persone che mi circondano mi dicono una cosa sono facilmente condizionabile. Ritengo sempre interessante confrontarmi con gli altri e ascoltare quello che hanno da trasmettermi.
Poi sarebbe importante riuscire ad essere critici su quello che dicono e questo credo di esserlo, almeno in parte.
Quindi sono uno che cambia idea, spesso, con grande facilità e serenità ma mai con superficialità.
Quindi per me la coerenza non è di per sé un valore, lo è molto di più l’integrità.
Ecco, credo invece che l’integrità sia “sopra”, rientri fra i valori e mi piace pensare di esserlo, mi piace sforzarmi di esserlo.
Forse ci stiamo confondendo sulle due cose.
Ovviamente la politica, specialmente da quando ha demandato ai mass media il ruolo di contatto con le persone, ci influenza.
Ecco che tutti vengono accusati di scarsa coerenza, specie quando saltano le coalizioni, ma quasi mai nessuno viene accusato di scarsa integrità. O almeno, esserlo è poco significativo.
Forse torniamo a http://cosekeso.blogspot.com/2010/12/day-after-governo-italiano-e.html
Invece credo che un politico abbia il diritto di cambiare schieramento, di non essere più in linea con quello che aveva sposato mesi o anni prima ma che abbia il dovere di rispettare le regole, di mostrare integrità.
Infrangere il patto coi cittadini per me non è spostare un equilibrio politico, le premesse potrebbero non esserci più e far saltare un accordo può essere legittimo. Il cittadino, l’elettore, viene tradito quando manca integrità, quando per preservare una coerenza si accettano compromessi e si ignorano regole e valori.
Io dico che chi mi rappresenta ha il diritto di cambiare idea, di spiegarmi perché quello che pensa ora non è più quello che pensava quando l’ho eletto. Io l’ho fatto mio rappresentante in un determinato momento, i cambiamenti sono così repentini che posso accettare che lui abbia modificato la sua posizione. Non posso invece accettare che vengano meno i valori che sono la base della nostra società.
Non ritengo necessariamente un pregio la coerenza, se quello che ho scritto corrisponde alla giusta visione di coerenza, ma non posso transigere sull’integrità. Perché io scelgo una persona per le sue idee, perché esse coincidano con le mie. Però se la persona mi deve rappresentare deve essere libera di cambiare idea e di parlarmene ma chi mi rappresenta non può non aver integrità. Altrimenti non mi rappresenta.
Ecco perché anche io non mi sento una persona coerente, cambio idea, sono influenzabile ma sono una persona che lotta e dedica la sua energia ad essere integra e corretta, sapendo che potrà non essere sempre coerente.

lunedì 20 dicembre 2010

Gaia e l'economia, terzo dialogo: sul coraggio

Forse perchè in preda ai deliri da vaccino Gaia mi ha chiamato verso la sua sdraietta, mi ha fissato e mi ha chiesto:
"babbo, perchè la nostra economia è così drogata di produzione e non può trovare sbocchi nei servizi".
Io l'ho guardata sbigottito e quello che segue è il dialogo che ne è scaturito.
N: "scusami gnoma, ma non ti seguo".
G: "sai, l'altra sera, quando ti sei addormentato sul divano, io stavo guardando Report e ho sentito che parlavano della nostra economia che è troppo legata al PIL e troppo incentrata sulla produzione e meno sui servizi".
N: "ok, capito, dov'è il tuo problema?"
G: "ma ti infastidiscono le mie domande?"
N: "no, perchè?"
G: "mi pareva avessi un tono..."
N: "sono solo concentrato per capire dove mi vuoi portare".
G: "ah, ok. Comunque, ricordi quando ieri parlavi di cambiare macchina e parlavi di incentivi?"
N: "certamente, è successo solo ieri"
G: "bene, mi sono cocnentrata sul concetto di incentivi e mi è venuto in mente che ne ho sentito parlare un sacco, anche quando ero ancora comoda comoda nella pancia della mamma".
N: "eh, sì ce ne sono di vario tipo: suelle auto, sulle biciclette"
G: "addirittura"
N: "certo, poi sui mobili, sulla produzione di energia, sulle moto"
G: "non credevo sulle moto, tu non l'hai cambiata..."
N: "simpatica, non è che posso cambiar moto sempre"
G: "metti insieme l'ingegno a parlare con me, lo sai...."
N: "ricordati che sono tuo babbo"
G: "scusa. Comunque la situazione è peggiore di quello che pensassi".
N: "dimmi dimmi"
G: "sai, ho sentito anche un certo Grillo scaraventarsi contro gli incentivi".
N: "ma sai, forse in questo periodo di crisi".
G: "ma fammi il favore. Ti dico come la penso".
N: "non avevo dubbi".
G: "allora, io fortunatamente cago come un adulto ma se avessi problemi mi servirebbe un incentivo, dico bene?"
N: "sì, come sempre rendi l'idea".
G: "se però l'incentivo mi serve sempre allora diciamo che è una medicina. Se questa medicina la devo prendere tutta la vita vuol dire che sono cronica".
N: "direi di sì".
G: "bene, perchè allora non ci diciamo che la nostra economia produttiva è cronica e non ci indirizziamo verso altro, che so, i servizi. Tanto al mondo c'è gente che produce a meno di noi, noi dobbiamo essere bravi in altro".
N: "ma insomma, la fai facile. L'economia ha radici storiche nella produzione, nelle fabbriche, nel lavoro operaio. Non è pensabile convertirci in toto, è solo propaganda, solo demagogia".
G: "a parte che demagogia non è un termine che conosco e buttarla su termini difficili è poco elegante, sai qual è il limite?"
N: "dimmi"
G: "il llmite è che bisogna avere coraggio e pensare lontano operando oggi. Io ho due mesi e mezzo e non ho paura a pensare a strategie che si concretizzino fra dieci anni ma tu, da come parli, non mi sembri avere lo stesso coraggio"
N: "beh, sai, forse hai ragione ma devo pensare al domani"
G: "hai ragione e fai bene. Pensa a domani, pensa a quello che devi fare per me domani, però pensalo cercando di capire come creare qualcosa per me, per quando avrò la tua età. Hai trentadue anni e non puoi farti assorbire dal tuo quotidiano pensando che ci sia solo quello. La cosa bella è pensare che ci sia il presente e ci sia anche il futuro. Se pensi al futuro non puoi pensare che ci si possa guarire con una medicina. Forse serve un intervento o forse basta migliorare l'alimentazione".
N: "(sospiro)".
G: "adesso credo di essermela fatta sotto, che dici controlliamo così dopo dormo? Ti voglio bene. Non aver paura per me, devi avere coraggio per me".
N: "Ti voglio bene, piccolina"

sabato 18 dicembre 2010

Italia e mondo occidentale, secondo dialogo con mia figlia Gaia

Questa mattina Giulia è uscita per commissioni e mi ha lasciato godermi la mia piccolina.
Dopo un po' di sonno dei giusti si è svegliata e ha chiesto di fare colazione.
Mentre la aiutavo col biberon è arrivato un sms del nonno che diceva "Leggi questa domanda: come sarebbe il mondo occidentale se l'Italia non fosse esistita? Come sarebbero l'arte, l'architettura, la musica, la scultura e lo sport?".
Finisco di leggere l'essemmesse, guardo l'ora e dico con Gaia: "Il nonno ti gira una domanda".
Gliel'ho letta ed ecco il dialogo.
G: "chissà dove l'ha trovato, spero non sia un pensiero suo, altrimenti di sabato mattina mi preoccupo, sai per il nonno, intendo".
N: "capisco, io son 32 anni che lo frequento, ogni tanto fa così, ti ci abituerai".
G: "ragiono un po' a voce alta, mi consenti?"
N: "ci mancherebbe, sei a casa tua e sei la padrona. Magari prima fai il ruttino che non vorrei ti venisse il singhiozzo".
G: "già fatto, grazie. Comunque, ragionando a voce alta: la domanda in sè è banale, la risposta è ovvia. La cultura e la società europea e occidentale per estensione sono figlie della storia e il passato ha visto per lungo tempo l'Italia al centro di questa storia. Pensa ai romani prima e alla chiesa successivamente."
N: "giusto, fra l'altro due imperi che hanno molto esportato valori, società, regole, cultura".
G: "Comunque, dicevo, è evidente che l'Italia, o almeno quello che ricade negli attuali confini dell'Italia, sia stato il centro dello sviluppo del nostro essere occidentali. Le osservazioni che mi vengono in mente adesso sono due."
N: "ti seguo, continua".
G: "prima di tutto bisogna capire quanto di quello che il nonno attribuisce all'Italia è in realtà altro che è sato assorbito dall'Italia. Mi spiego, l'Italia che vinceva e dominava con l'impero romano o con la chiesa attraeva sul suo suolo menti che la arricchivano ed arricchivano la cultura che poi veniva esportata. Un po' come fare sartoria made in italy avendo un laboratorio abusivo con 20 immigrati stipati e schiavizzati. Tu mi insegni che la storia è la storia dei vincitori e non dei vinti".
N: "non ricordo di avertelo detto io, sarà stata la mamma. Comunque concordo".
G: "Bene, la seconda riflessione invece è questa. Il debito di riconoscenza dei popoli occidentali è evidente. Ritengo che l'Italia sieda a tavoli importanti per quello che ha fatto, per quello che ha rappresentato e per il contributo che ha dato a ceare identità. Non sono però convinto di due cose: la prima è che in effetti ancora oggi si giustifichi a certi livelli politici la nostra presenza, il secondo è che noi siamo in realtà consapevoli di questa gratitudine. Mi segui?".
N: "ehmmm no, non ti seguo. Cioè i è chiaro il discros sulla consapevolezza, mno quello della nostra presenza ecc ecc".
G: "ho visto dalla faccia. Dunque come rendertelo semplice. Ah, ecco l'esempio. Hai presente le grandi aziende, con un padrone artigiano che le ha portate a livelli di eccellenza. Il padrone ha sempre avuto uno stretto collaboratore che ha iniziato magari scaricando i camion e col tempo, stando sempre vicino al padrone, è diventato direttore. Ecco, giunto alla vecchiaia non ha più la cultura e le conoscenze per aiutare un'azienda ormai diventata immensa. Ecco, quello stesso fidato collaboratore siede nel CdA per gratitudine, tutti lo rispettano perchè ha contribuito a fare grande l'azienda ma in riunione tutti sperano che non intervenga, che non parli perchè ormai non ha più nulla da dire".
N: "chiarissimo. Il collaboratore è l'Italia".
G: "bravo, mi dai un sacco di soddisfazioni. Adesso mettimi giù che devo fare un pisolino. Forse più tardi sarò da cambiare, casomai ti chiamo".
N: "buon riposo amore mio"

giovedì 16 dicembre 2010

Dialogo sulla felicità con Gaia

Ieri sera Giulia è uscita e mi ha lasciato in compagnia di Gaia. Fra l'altro compiva 10 settimane e abbiamo festeggiato.
Le ho chiesto come stava, come si trovava al mondo e in cosa potevo essere un babbo migliore.
Abbiamo parlato a lungo e vi voglio riportare il nostro dialogo, almeno alcuni spunti.
N: "allora com'è qusto mondo? Vista da fuori mi pari serena ma vorrei che me ne parlassi sinceramente".
Gaia: "Sai, non è facile, non controllo ancora bene tutte le mie funzioni, riesco a spiegarmi ancora in pochi modi e poi mi infastidisce non vederci ancora bene del tutto, anche se miglioro".
N: "immagino piccolina mia, mi dispiace che per te sia difficile, sai ormai io ho perso di vista i miei bisogni primari, mangiare, dormire, evacuare.."
G: "puoi benissimo dire che io cago, non c'è bisogno che fai il fine. Però volevo aggiungere che, anche se è difficile, io sono felice".
A quel punto ha visto il mio sguardo tenero e ha aggiunto:
"Sai, è varo che tu non ha i più la percezione dei tuoi bisogni primari, che non ti accorgi del cibo e di tutto il resto perchè non ti mancano, ma credo tu ti stia confondendo su un aspetto. Felicità e facilità non vanno assieme".
N:"Cioè, credo di capire ma mi piacerebbe approfondissi, non vorrei aver inteso male".
G:"Certo. Vedi, nella tua ricerca di soddisfare beni sempre più grandi stai confondendo il facile con il felice. Io faccio una gran fatica a cagarmi addosso, cosa credi. Sono sforzi epocali che mi sfiancano. Faccio fatica pure a mangiare, quando finisco di bere dal biberon sono stremata. Ogni tanto sono pure troppo stanca per dormire ed è una fatica boia non riuscire a farvi capire perchè comunichiamo a livelli diversi. Tutto questo è difficile".
N:"Ok, ti seguo".
G:"Bene. Ecco, il fatto che sia difficile non vuol dire che io non sia felice. Così come non vuol dire che quando una cosa mi riesce facilmente mi faccia felice per forza".
N:"Giusto, felicità e facilità non sono la stessa cosa".
G:"Bravo, si vede che sei mio babbo. Sono due caratteristiche che possono o non possono essere legate. Ecco, invece ogni tanto mi pare che tu ti confonda. Che ti faccia felice una cosa che è solo facile. Ti faccio un esempio che puoi capire. Quando eri piccolo giocavi?"
N: "Certamente".
G: "Bene, i giochi facili quanto duravano?"
N: "Poco".
G: "Perchè dopo un po' non erano divertenti. Un bambino non si pone il problema di non riuscire a fare una cosa, per lui è tutto possibile. Ecco che allora le cose troppo possibili, troppo facili, annoiano".
N: "Ok, questo regge se la cosa difficile è fattibile".
G: "sì e no, la fattiblità di una cosa, o meglio la percezione di fattibilità di una cosa, è più legata alla motivazione che non alla felicità di riuscirci".
N: "Hai ragione. Provo a riassumere: nella vita non è importante quanto sono facili o difficili le cose, importa quanto ci rendono felici".
G: "e....."
N: "E una cosa facile non necessariamente rende felici, semplicemente è facile".
G: "Bravo babbo. Ora io dormirei che ho fatto una gran fatica".
N: "Buon riposo amore mio".

mercoledì 15 dicembre 2010

Day after. Governo italiano e Machiavelli

Ok, parlo di politica. Chi si infastidisce e si inalbera lo sappia sin d'ora.
Siamo al day after. L'Italia ha ancora un governo.
Un governo che pare vagamente ingessato, dati i numeri.
Chissà, in fondo forse è stato meglio così. Forse è meglio avere continuità, per quanto immobile, in questi giorni.
Ma non voglio entrare nel merito.
Voglio fare un'altra riflessione.
Il modo in cui questo governo resta in carica è imbarazzante, risse in Parlamento, minacce a chi non votava e addescamenti per gli incerti, caccia dei voti, promesse per i voti, scongiuri per i voti.
Siamo proprio il popolo figlio di Machiavelli. Il fine giustifica i mezzi. Il risultato giustifica ogni nostro modus operandi. Diceva Machiavelli che un governante deve essere giudicato dai risultati e non da come li ottiene.
Mi viene un dubbio: siam sicuri di aver capito cosa diceva Machiavelli o come sempre non abbiamo letto bene?
Io credo che questo "Principe" ci abbia influenzato molto in questi secoli ma che qualcosa ci sia scappato.
Ci è scappato il fine per il quale i mezzi sono effettivamente giustificati.
Io mi sento un po' ingannato, ma la responsabilità in fondo è mia, sono caduto in un tranello.
I politici sono stati molto bravi (tutti, a destra e a sinistra) ad allontanarmi, disgustarmi, infastidirmi e hanno così potuto confondermi sul fine.
Adesso in politica non c'è più uno scopo che giustifichi il grande assortimento di mezzi opinabili cui siamo stati abituati.
Mannaggia.
Machiavelli è stato lo scudo con cui abbiamo fatto passare mezzi assurdi e inaccettabili e non abbiamo visto che dietro questo scudo venivano sfilati i fini, gli scopi, i perchè.
Non mi sento rappresentato, non vedo un bene comune che giustifichi nulla di tutto questo. E la cosa più grave è che non ho voglia di farci nulla.
Il problema è cosa racconterò a mia figlia fra ventanni e cosa le lascerò.

domenica 12 dicembre 2010

BMW, App store e mio babbo: tecnologia da usare

Ieri sera verso le 22.40 mi telefona mio babbo per avere informazioni su una applicazione dell'iPhone.
Era a cena da un amico che è anche lui possessore di un iPhone e si stavano confrontando su alcune app. Si stavano confrontando e scambiando app.
Io gli ho risposto mentre Giulia mi teneva il telefono e io reggevo quattro bottiglie e tre bicchieri.
Più tardi ho pensato a quanto fosse interessante la cosa.
Però mancano alcune premesse.
Mio babbo è un uomo molto intelligente, dotato di una grande intelligenza pratica e di una notvole capacità di estrarre e astrarre lezioni dal quotidiano. Per capirci, non è uno da grandi teorie su libri o riviste, è uno che riconosce un approccio valido ed è in grado di estrarlo dal contesto per capirne il meccanismo. Se vede qualcosa poi elabora velocemente cos'è successo.
Questo per dire che è uno con la testa.
Bene, non conosco il suo amico ma, se facciamo finta che una carriera professionale possa darci indicazioni circa la persona, dovrebbe essere una persona intelligente.
Quindi siamo davanti a due signori, 55 e poco più di 60 anni, che sono a cena e si confrontano sull'iPhone.
Questo mi ha portato a riflettere nuovamente sull'importanza di rendere semplici le cose.
Questi due signori sono della generazione che si è imbattuta nel PC quando erano già ad una certa maturità, avrebbero forse potuto evitarlo, girandoci attorno e sopravvivendo bene anche senza. Invece conoscono la tecnologia, non ne sono dei malati, almeno mio babbo, e la apprezzano quando li aiuta.
Forse le nuove generazioni saranno molto più veloci ad imparare ad usare una nuova tecnologia ma in alcuni casi si dimenticano del perchè serve loro.
Provo a spiegarmi con due esempi relativi a due oggetti che conosco: moto e cellulari.
Esistono in commercio mezzi stupendi, supersportive con tanta di quella tecnologia che potresti governarci una navetta spaziale. Hanno prestazioni da paura, sono studiate come missili su ruote. Sono anche bellissime e hanno un fascino incredibile. Questa tipologia di mostri su ruote ha mille declinazioni diverse, tutte performanti, tutte bellissime. Il mezzo più venduto in Italia è il BMW R1200GS. Perchè? Mettiamoci che fa moda, lo ammetto, ma come c'è arrivato a fare moda.
Com'è possibile che un concetto di propulsore che ha 30 anni, un sistema di ammortizzazione che è contronatura e anch'esso datato siano alla moda? Perchè il GS è facile. Con un GS mi sento un motociclista pure io. Piego, curvo, accellero, viaggio. Mi sento un motociclista vero. E' chiaro a cosa serve e rende semplice farlo. I primi l'hanno apprezzato e l'hanno fatto diventare un oggetto di moda.
Adesso molte case stanno cercando di copiarne il successo ma, nel tenativo di dare un tocco di personalizzazione al mezzo, ne stanno perdendo la premessa: facile da usare. Ecco, mio babbo ed il suo amico si sono conosciuti girando in moto, su un GS.
Il secondo esempio mi porta ai telefonini. Così come sono un beamer sfegatato sono pure un Apple-addicted. Nella vita ho cambiato diversi cellulari e il punto di forza dell'iPhone l'ho capito nel settembre del 2007 dentro l'Apple store a New York, vicino a Central Park.
Ogni volta che ho preso in mano un nuovo cellulare l'ho messo sotto carica e quindi ne ho studiato il libretto. Nei cellulari adesso ti ritrovi addirittura due libretti di istruzioni, quello normale e la guida rapida. Una volta imparato cominciavo quella che potremmo definire la famigliarizzazione con le funzioni. Prima cerchi l'orologio, poi vedi di impostare la suoneria, magari pure un'immagine di sfondo, passi ai messaggini per vedere se ha il T9 o altro, ecc ecc. Magari mentre cerchi l'oroglogio ti imbatti nella funzione per le suonerie e cerchi di far mente locale per poterti ricordare dov'è in seguito.
Con iPhone il primo impatto è stato a NY, nello store. Telefonino acceso, lo prendo in mano, premo l'unico pulsante che c'è e lui mi dice di muovere il mio dito per sbloccarlo. Fatto questo non c'era più nulla da imparare. Quando dopo qualche mese l'ho potuto comprare l'ho attivato ed ero impaziente fosse carico. Non avevo bisogno di altro tempo per imparare, non c'era nulla da imparare, dovevo usarlo e basta.

Bene, questa cosa, adesso che ho rifilato il mio iPhone a mio babbo, la vedo su di lui. La sua generazione è ancora più utilitaristica della mia, ha quasi il rifiuto di dover imparare le cose. E' rimasta "scioccata" negli anni ottanta qundo gli hanno venduto videoregistratori con millecinquecentotrentasette pulsanti diversi. Ancora oggi ha la convinzione che di quei millecinquecentotrentasette (ho fatto copiaincolla....) pulsanti in realtà solo 5 fossero utili.
E adesso è in grado di apprezzare quando la tecnologia è utile.
Spero di riuscire anche io a mantenere questo spirito critico, a riuscire sempre a scindere la funzione di un oggetto dalla sua forma. A capire cosa fa e spero che la tecnolgia vada nella direzione di non doversi far imparare da nessuno, solo utilizzare.

In fin dei conti se ci circondiamo di cose semplici e utili la vita potrebbe pure diventare.....semplice.

venerdì 10 dicembre 2010

Creatività e gelosia delle nostre idee

Ieri sera sentivo alla radio di una ricerca che parlava di creatività.
La ricerca era volta ad evidenziare l'importanza della condivisione nella creazione di nuovi oggetti. Si intendeva creatività come applicata alla creazione di oggetti e basta.
Ricordo che anni fa, durante il mio tirocinio post laurea, mi fu affidata una ricerca sul tema della creatività. Mi appassionò molto e individuai una serie di personaggi che avevano avuto successo grazie alla capacità di dare forma e spazio alla loro creatività.
Allora mi colpì la storia di una società farmaceutica che aveva individuato in un ormone una particolare funzione legata alla produzione di un farmaco. L'ormone era presente nell'urina delle donne e, se non ricordo male, in particolar modo nelle donne in menopausa. Non chiedetemi perchè.
Il fatto è che la casa farmaceutica si accordò con i monasteri (anzi col Vaticano) per la raccolta dell'urina che poi veniva utilizzata per creare un farmaco. Stiamo parlando della Serono, la casa farmaceuitca di Bertarelli, quello di Alinghi, non del farmacista sotto casa mia, con tutto il rispetto.
Mi colpì molto lo spirito di iniziativa. Qui non c'è creatività nel senso di creare, qui c'è intesa come risoluzione dei problemi.
Sarebbe orgoglioso De Bono (che vi consiglio anche come lettura da spiaggia, o da rifugio in montagna).
Bene, un altro caso che mi colpì molto è quello della 3M.
Ormai si confonde leggenda e verità ma pare che alla base dei nostri Post-It ci sia un errore di miscela nella preparazione della colla. La conseguenza fu una colla che non attaccava e che non sporcava, quella che adesso ci permette di riempire di quadratini gialli la nostra e l'altrui scrivania.
Ecco, entriamo un po' nel vivo. La cosa che più mi ha affascinato di 3M e che ha sfruttato in maniera positiva questo errore e che poi ha anche deciso di sistematizzare la creatività. Cioè ha incentivato la creazione di nuove idee, ha riempito i suoi armadi e archivi di idee sbagliate, di errori, di incidenti nella convinzione che prima o poi tornassero utili.
Solo che l'esistenza di questi "archivi degli errori" non può essere circoscritta a pochi, tutti devono poter essere partecipi di tutti questi input, perchè a chiunque potrebbe venire in mente un'applicazione.
Siamo arrivati al cuore del mio discorso: non dobbiamo essere gelosi delle nostre conquiste, delle nostre scoperte. Il tempo in cui i nuovi progetti, le nuove idee, i nuovi prodotti venivano svelati da sotto un velo ormai è passato. Ormai c'è la condivisione.
E questo è il valore aggiunto, pensate allo scopo di quello che fate e mettetelo in rete, altri porebbero trarne spunto per loro e per voi.
Tempo fa avevo studiato un dispositivo abbastanza semplice per la sicurezza delle auto, una sciocchezza. L'ho girato a tutte le case di cui ho reperito un indirizzo email e BMW mi ha risposto invitandomi ad iscrivermi in un sito dove loro raccolgono suggerimenti, studi, proposte, ricerche di tutti gli utenti. E' un luogo dove mettere le proprie idee a sistema, dove vedere se altri ci stanno già pensando, a che punto sono, cosa non hanno pensato e come hanno già risolto alcuni problemi. E' uno spazio virtuale attivo, dove ci si può confrontare, porre domande, chiedere spiegazioni. All'inizio viene chiesto che livello di vincoli ci sono sull'idea e poi ognuno si confronta liberamente.
Personalmente ho scoperto che un ragazzo scandinavo (non ricordo bene di quale nazione)aveva già pensato ad una soluzione simile alla mia cui mancava qualcosa che gli ho aggiunto io e che però aveva già sviluppato molto più di me il progetto.
Mi ha fatto piacere, ha reso più possibile un'idea che per me si era arenata.
Sicuramente non porterà a nulla per altri mille limiti e difetti del progetto ma la chiave sta nell'avere uno spazio di condivisione che faciliti il confronto e il reperimento delle idee. Non dobbiamo essere gelosi delle nostre conquiste e delle nostre idee, in fin dei conti "l'idea mgiliore è quell ache possiamo scegliere tra una grande quantità di idee". Mettiamo a sistema le nostre conoscenze.

martedì 7 dicembre 2010

Semplificare la realtà, una lezione da Aristotele.

Ormai sono in pieno periodo filosofico e anche ieri sera ho riscoperto alcuni aspetti che mi hanno colpito.

Mi sono approcciato ad Aristotele. Gran testa, veramente.
Visto che non devo preparare interrogazioni o compiti in classe mi concedo di saltare da un concetto ad un altro secondo il mio piacere, considerando che è sempre più o meno mezzanotte quando mi accingo a leggere.
Ieri ho cominciato con la critica che Aristotele muove al concetto di mondo delle idee di Platone....mi sentivo in forma, molto in forma.
Bene, lasciamo perdere il succo perchè non credo di averlo capito e veniamo all'aspetto che mi son portato questa mattina in macchina.
Aristotele critica Platone dicendo che con l'introduzione del concetto di Idee e di mondo delle Idee lui non semplifica la realtà ma ne aumenta (raddoppia) la complessità.
Di fatto, riassunto barbaramente, dice che introdurre un concetto per spiegarne un altro è complicare la realtà, è avere due concetti e non più solo uno.
Ribadisco, lasciando perdere le sfumature, mi sono concentrato su quello che era lo scopo di questi fenomeni: semplificare la realtà.
Cioè, Aristotele critica Platone perchè lui col suo operato non semplificava la realtà.
Per favore, rileggete la frase precedente perchè, a mio avviso, è illuminante.
Mi son venuti in mente nuovamente i politici. Loro non mi pare che semplifichino la realtà, anzi.
Però mi son venute in mente anche tante riunioni in ufficio.
Io stesso, per dare sfoggio di quelle 4 competenze e conoscenze che mi ritrovo, spesso ho un comportamento da pavone, che tende a complicare la realtà, a darle sfumature e connotati di grande complessità per legittimare una mia professionalità.
Che stupido e che ingenuo, quanto è meglio concentrarsi sempre sul rendere accessibli le nostre conoscenze, sul cercare di semplificare e non banalizzare le nostre idee, il nostro sapere.
Chissà se ho imparato.

lunedì 6 dicembre 2010

Nuovo sport nazionale: dare consulenze professionali ai colleghi

Esistono lavori più o meno interessanti, lavori che alcuni percepiscono come molto interessanti e che per altri sono un incubo.
Lavori che non vorremmo mai fare, lavori che dobbiamo fare e non vorremmo.
Lavori che non potremo mai fare e altri che non smetteremo mai di dover fare.
Bene, c'è però un lavoro che piace a molti, direi quasi a tutti: quello che tocca al collega.
Ormai si diffonde sempre di più la passione per quello che fa il collega.
Ci hanno insegnato, negli scorsi decenni, a collaborare, ad essere proattivi, ad essere problem solver. In pratica ci hanno autorizzato a farci i fatti altrui. O almeno questo è quello che abbiamo appreso.
Hanno inventato gli open space perchè le informazioni girassero meglio ma si sono dimenticati la cosa principale: non ci hanno detto che arriva sempre, prima o dopo, il momento in cui ci si deve assumere le responsabilità di un proprio compito. Abbiamo avuto gli strumenti per far girare le informaioni e li usiamo come ci pare appropriato, ascoltando il collega in difficoltà.
Ci hanno detto che lavorare con maggiore autonomia implicava responsabilità ma eravamo troppo incantati a sviscerare le fantastiche sfumature del problem solving, a capire quale infinito potere ci avessero insegnato.
Possiamo chiedere, possiamo farci aiutare, possiamo parlarne al caffè, dirlo forte al telefono, mandare mail di presenteazione, mail di intenti, richieste di riunioni, inserire in copia delle nostre mail mille colleghi: prima o dopo arriverà la responsabilità.
E per fortuna, dico io.
C'è però una nuova disciplina professionale, un nuovo virtuosismo da ufficio che ci permette di sfogare tutte le nostre competenze senza rischiare nulla: farci gli affari altrui. Ci sono maestri nel saper fare il mestiere delgi altri, nel saper consigliare, nello scuotere la testa. I più pericolosi sono quelli che instillano dubbi, che ti fanno tornare a riflettere su un concetto che ormai hai ampiamente sviscerato.
Perchè oggi, sfruttando tutte le occasioni di condivisione che le aziende ci offrono, si sviluppa così tanto l'occuparsi del mestiere altrui? Perchè è facile. Se io sento un collega che ha un problema posso permettermi un consiglio senza l'analisi costi/benefici. Posso fare della consulenza pura sugli affari altrui. Posso commentare con proposte talmente belle da non essere applicabili, tanto applicarle non sarà compito mio. Divento un filosofo d'azienda, mi siedo calmo alle sue spalle, lo rassicuro poggiando la mia mano sulle sue spalle e con voce calma gli regalo una soluzione perfetta, pura nel suo intento, scevra da qaulsiasi contaminazione con la realtà quotidiana. E' l'archetipo di ogni risposta e, in quanto tale, assolutam,ente inapplicabile. In questo modo ho allenato la parte più evoluta di me, mi sono soddisfatto mentalmente concependo una risposta di livello intellettivo superiore ma ho dimenticato che il mio collega non vive nelle mie masturbazioni mentali, vive nella realtà. Però, fortunatamente,m quando la fase del problema arriva alla conclusione posso sfilarmi e vedere cosa farà il mio collega, restando sempre in una posizione vincente, lasciandolo solo con i suoi problemi reali mentre mi gongolo del fatto che la mia soluzione, per quanto questo mondo non fosse pronto ad accettarla, era perfetta.

domenica 5 dicembre 2010

Cinema Astoria e la fine dei sorrisi

Mi distacco un attimo dal solito filone di post, se mai ci fosse un filo conduttore.
Oggi pomeriggio sono tornato al Cinema Astoria, dopo la chiusura estiva, dopo che sembrava non dovesse riaprire, dopo che è stato salvato dal generoso Cinemacity.
Il cinema è sempre lui, sono cambiate le persone al bar, peccato, ma alcuni personaggi sono sempre loro, fortunatamente.
Però il cinema, pur essendo lui, non è più lo stesso. Ci sono meno sorrisi, e questo fregherà a pochi, costa un po' di più e questo toccherà qualcuno.
Già, prima al cinema Astoria presentavi una tessera, una qualsiasi direi, ed entravi a 5 euro, prezzo onesto.
Adesso sono azzerate le convenzioni e l'ingresso costa € 7,50....stessi film, stesse poltrone, stesso riscaldamento (o aria condizionata).
Ce lo siamo meritati.
Abbiamo fatto esplodere di persone una struttura nuova luminosa, piena di ogni intrattenimento e abbiamo lasciato morire la storia della città.
Piano piano tutti i vecchi cinema, scomodi, senza parcheggio, con una sola immensa sala in piano sono stati chiusi.
Si è difeso l'Astoria nel modo che sembrava più furbo, prezzi bassi e sorrisi.
Non è bastato, ci meritiamo di pagare il cinema il 50% in più di quello che doremmo.

Ora questo non vuole essere un post contro il Cinemacity, non è un luogo che mi fa impazzire ma credo che sia un'opportunità di guadagnare quattro soldi per un bel gruppetto di studenti lavoratori. Fra l'altro risolve anche le serate di molti adolescenti.
Non ho idea di chi siano gli investitori, se si tratta di un capitale che poi resta in città o meno, ripeto, il post non è contro il CC, loro hanno vinto, significa che sono bravi.

Mi spiace solo vedersi spegnere il Cinema Astoria, quello in cui sono stato per il primo appuntamento con Giulia, quello dove ho visto la finale dei mondiali del 2006, quello dove ho visto jurassic park pensando fosse il futuro, dove ho seguito la saga del Signore degli Anelli vedendo realizzarsi un sogno e ho visto gli ultimi tre episodi di Star Wars facnedomi nascere una passione. Personalmente ho tentato di tenerlo in vita andando solo lì, con fare estremista: se un film non era al Cinema Astoria si aspettava che uscisse in televisione. Non è bastato e adesso continuerò ad andare al Cinema Astoria, grazie alla generosità del City, spendendo di più, perchè farci pagare meno ed essere sorridenti non è bastato.
Quando chiuse il Mariani ci rimasi male ma non come adesso, non come oggi che son tornato all'Astoria per vedere Harry Potter e tutto era uguale ma il sapore non era lo stesso.

venerdì 3 dicembre 2010

Socrate, il fare domande e il dare risposte.

In questo particolare momento della mia vita mi ritrovo ad allungare le mie serate per attendere l'ultimo pasto di Gaia e questo mi ha fatto recuperare ore per varie attività (ok, mi ha fatto perdere ore di sonno ma il mio fisico regge e quindi preferisco dire che ho guadagnato ore di vita).
Negli ultimi giorni mi è capitato fra le mani uno dei miei libri di filosofia del liceo. Lo tenevo sul comodino per fare colpo su mia moglie ed ho finito col leggerlo sul serio.
Ieri sera ho riscoperto Socrate. Mi ha colpito la sua modalità di approccio e di confronto, centrata sul fare domande, sul chiedere, sul non sapere. E' famosa la sua frase "Sembra dunque che per questo particolare io sia più saggio di quest'uomo, poiché non m'illudo di sapere ciò che non so!".
Bene, mi è rimasto in mente tutto il discorso relativo al fare domande, alla capacità di farle le domande.
Per lavoro mi capita spesso di chiedere ma mi sono accorto di non essere molto capace.
Mi sono reso conto, riflettendo in macchina, che spesso pongo questioni avendo già in mente la risposta.
Allora ho continuato ed ho pensato a quante volte utilizziamo le domande degli altri per dare le risposte che sappiamo e non le risposte alle domande.
E' un'arte che impariamo a scuola: ci chiedono di parlare di Socrate, ad esempio, e noi in due passaggi rispondiamo parlando di Platone cercando di far sembrare il tutto una risposta a tema.
Quante volte diamo la risposta che sappiamo e non la risposta alla domanda.
Quante volte abbiamo la smania di dare una risposta senza cogliere la reale necessità di chi ce la pone? Nel mio mestiere, fatto di mille relazioni, dedicare tempo a capire l'esigenza di chi ci è davanti è cruciale. Combattere con la nostra indole, che mi spingerebbe a dare comunque una risposta, non sempre è facile.
Credo che dovremmo tutti fare un piccolo training sul formulare domande e sull'ascoltarle.
Altrimenti tutto si riduce ad un questuante che pone la domanda sapendo la risposta ed un interrogato che risponde esprimendo il primo concetto simile a quanto ha percepito gli sia stato chiesto.
Io ti rispondo quello che so, non quello che mi chiedi, tanto poi tu capisci quello che ti aspettavi e non quello che realmente cercavi.
Sono occasioni perse.
Purtroppo abbiamo tutti ansia da prestazione e facciamo fatica ad accettare un periodo di analisi della domanda. Magari lo facciamo dopo, rispondiamo qualcosa, così da metterci in una condizione di serenità, e poi prendiamo tempo per dare una risposta più coerente con quello che ci viene chiesto.

Bene, nel prossimo periodo mi concentrerò su quello che chiedo sapendo cosa cheido ma non aspettandomi quello che mi verrà risposto e cercherò di capire bene cosa mi viene chiesto rinunciando, se serve, a quello che vorrei rispondere.

mercoledì 1 dicembre 2010

Comunicare come e non con che cosa

Comunicazione.
Ancora!
Diciamo che secondo me è uno dei migliori indicatori della qualità della vita, quindi ci tornerò spesso. L'uomo è un animale sociale, fatte alcune eccezioni, e la comunicazione è il mezzo con cui esprimere parte di questa sua natura.
Quindi avere delle buone comunicazioni è un buon indicatore, per le persone ma anche per le aziende.
Le aziende lo sanno, sanno che molta inefficienza può passare dalle comunicazioni interne e allora adottano strumenti per migliorale.
Attenzione, la mia insegnante di filosofia mi diceva che le parole sono macigni.
Quindi sottolineo che le aziende adottano molti strumenti per migliorare la comunicazione.
Lo fanno per far sì che le informazioni circolino meglio, che ci sia condivisione.
Anche dove lavoro io ci sono strumenti nati per far comunicare e altri ne nasceranno.
A questo punto però mi si accende una lampadina.
Non è che gli strumenti in azienda non siano il modo corretto per migliorare la comunicazione. Forse sono ottimi per condividere, per supportare la comunicazione ma possono essere un rischio.
Breve riflessione che rientra fra quelle con la piccola in braccio.
Un buovo software o una nuova piattaofrma informatica inserita in azienda è un mezzo.
Comunicare bene è una questione di capacità, conoscenze e di volontà, di motivazione.
Ora sappiamo che la motivazione si compone di due fattori: il valore che ha una certa azione e la percezione che abbiamo di riuscire a farla. Un'attività che per noi è importante ma che fatichiamo a percepire come alla nostra portata difficilmente ci vedrà motivati, così come un'attività alla nostra portata ma che non ci interessa.
Bene, chi mi garantisce che il nuovo strumento informatico, la nuova piattaforma non faccia che aumentare la mia percezione di difficoltà.
Viviamo ancora una stagione professionale piena di persone, come me, che non sono nate col computer ma che l'hanno conosciuto alle superiori. Dobbiamo sempre fare conoscenza coi nuovi strumenti.
Siamo sicuri che il nuovo strumento non allontani la nostra motivazione? Quanti ottimi programmi vengono sfruttati meno del software che hanno sostituito perchè non abbiamo la percezione che mai saremo in grado di sfruttarli.
Per la comunicazione è uguale.
L'errore è pensare che uno srumento la migliorerà.
Il rischio è che la percezione di difficoltà dello strumento ci demotivi a comunicare.
Perchè le email funzionano? Perchè tutti in ufficio sappiamo usarle e in più semplificano la comunicazione (accrescendo quindi la motivazione) riducendo l'aspetto della relazione, rendendole impersonali. Non c'è neppure più la nostra grafia, su una mail.

Beh, dedichiamo tempo a spiegare i nuovi strumenti perchè sono solo strumenti, non suonno se nessuno li suona perchè pensa siano difficili.
Non daranno alcun risultato se le persone non saranno motivate ad utilizzarli e riempirli di contenuti.

Antica Grecia: nuovo manifesto politico.

Ieri sera, al mio rientro dalla missione in Algeria, ero troppo stanco per molte cose a mi son messo a letto con in mano il “Sini”. Per chi non frequentava il liceo il “Sini” è un libro che parla di filosofia e filosofi. Mi son detto, tempo 4 righe e perdo conoscenza.
Invece son capitato a leggere una parte molto interessante che mi ha appassionato e che mi ha portato a questo post.
Siamo nella Grecia del 5 secolo Avanti Cristo, la guerra con la Persia è andata mentre quella fra Atene e Sparta ha lasciato dei segni profondi.
Il modello di Democrazia vacilla, diventa sempre più demagogia, il potere si accentra su nuove famiglie che si sono arricchite. Chissà, forse col commercio, forse con la guerra. Non me lo ricordo e il “Sini” non ne faceva menzione.
Siamo in un momento buio, quando certe illusioni e certe visioni illuminate di Democrazia e coinvolgimento vengono meno.
Ecco, in questo momento così buio e difficile qual è la risposta della Grecia? Cosa succede? Nascono e si sviluppano i Sofisti. I Sofisti sono quelli che hanno inventato la scuola come la intendiamo noi, fatta di diffusione della conoscenza e di istruzione.
I nuovi potenti hanno bisogno di crescere culturalmente per difendere i propri affari e potersi confrontare in tribunale con gli accusatori. Quindi in un momento di difficoltà, in un momento buio la richiesta è conoscenza, cultura, istruzione.
Ora, sul testo riporta che questi “insegnanti” non erano ben visti dalla pubblica amministrazione poiché non era ben visto che si facessero pagare per insegnare. E non andava neppure bene una diffusione massiva, accessibile, delle conoscenza.
Questo non bloccò i sofisti che imperversarono in tutta la Grecia. In fin dei conti c’era una forte richiesta di crescita culturale e di istruzione che la pubblica amministrazione non poteva fermare.




Lascio qualche riga bianca perché alcuni concetti meritano di essere sedimentati.
Aggiungo che parliamo di 2.500 anni fa e lascio qualche altra riga.




Bene, veniamo al manifesto politico della mia candidatura.
Riprendo e sposo quello che dicevano i Greci: nei momenti di difficoltà bisogna ricorrere ad una crescita culturale e di istruzione ed è inevitabile investire in istruzione. Istruzione che merita degli investimenti che non sono solo legati a rifacimenti di immobili, che pure sono importanti e necessari ma sono legati alla forma.
La forma è in grossa difficoltà, la scuole sono fatiscenti, non ci sono soldi per strutture, materiali didattici ed altro. Però è con un importante investimento sulla sostanza, sul corpo docenti, sui programmi, sugli obiettivi, sui ragazzi che creeremo del valore aggiunto.
Quindi ribadisco quanto introdotto in un altro posto: l’istruzione, se mi eleggete, sarà una mia priorità. E sarà una mia priorità valutare dei pacchetti completi, un’analisi che non sia monodimensionale del problema istruzione. Non sono solo i docenti o solo le aule o solo i programmi o solo il bullismo. E’ tutto l’universo scuola che merita di essere prioritario.

sabato 27 novembre 2010

Valori, Idee, azioni. Prima riflessione su Adriano Olivetti

Ho deciso di studiare un po' il personaggio Adriano Olivetti.
Sono curioso di capire come un imprenditore scomparso 50 anni fa (1960) possa essere ancora così un riferimento nelle aule di gestione aziendale e, in particolar modo, di gestione risorse umane.
La sua vision potrebbe essere riassunta in "sperimentare su come si possano armonizzare lo sviluppo industriale con la affermazione dei diritti umani e con la democrazia partecipativa, dentro e fuori la fabbrica".
Da una prima lettura superficiale emerge il profilo di un uomo fortemente influenzato dal fordismo ma con la grande capacità di capire come Italia e Stati Uniti non siano la stessa cosa.
Il suo wellfare all'interno dell'azienda raggiunge livelli di assitenzialismo, ciò che lui pensava dovesse essere un servizio per i suoi dipendenti è utopia a 50 anni dalla morte.
Bah, lasciando ad altri momenti l'analisi di questi aspetti voglio riportare la prima cosa che emerge forte nella sua biografia.
Il coraggio.
Adriano Olivetti era un uomo fisicamente poco marziale, faticoso, spesso con l'aria assente di chi è avvolto da pensieri complicati.
Però aveva un coraggio incredibile. Un coraggio di pensiero e di azione.
Partecipò ad azioni politiche molto forti, esponendosi a rischi superiori a quelli che noi saremmo disposti a correre oggi. Ho in mente la liberazione di Filippo Turati.
Molti di noi, oggi che viviamo in uno stato in cui il concetto di lbertà è sicuramente più forte e definito, non ci esporremmo mai a quello che ha fatto lui.
Quello che mi colpisce e che vorrei ricordarmi nella mia quotidiniatà è che c'è sicuramente un coraggio intellettuale che è lodevole e deve essere un volore importante. C'è però, nelle persone come Olivetti, un coraggio operativo che li rende unici, c'è l'ardire di provare a concretizzare il proprio pensiero, la fiducia nel proprio progetto. Olivetti aveva la forza di essere un pensatore libero e geniale e il grande coraggio di non limitarsi a pensare ad avere idee.
Quante volte ci gratifichiamo per il livello del nostro pensiero, compiacendoci delle soluzioni che abbiamo pensato, studiato, trovato.
Quante volte abbiamo il coraggio di mettere in pratica le nostre idee, pronti a confrontarci col fallimento forti solo della convinzione di avere ragione.
Beh, Olivetti lo faceva. E' andato a fare la prima acquisizione d'azienda negli stati uniti, molto prima che Marchionne e Fiat facessero lo stesso con Chrysler.
Aveva coraggio, non era sconsiderato. Aveva fiducia in quello che pensava, fiducia nella bontà dei suoi valori. Infatti, probabilmente, per poter essere così determinato non è sufficiente essere certi delle proprie idee, bisogna sapere che queste idee poggiano su valori che sono vincenti, che sono dati dalla nostra cultura, dalla nostra educazione, dalla nostra società e, per alcuni, dalla nostra fede. Beh, credo che farsi guidare dai propri valori sia il modo migliore per avere idee che siamo sicuri di poter concretizzare.
Chissà, forse ha ragione Google quando cerca nei candidati una condivisione dei valori e dello spirito dell'azienda oltre che una capacità tecnica.
Un gruppo di persone che condivide volori importanti avrà sempre una basa d'accordo su cui lavorare.

giovedì 25 novembre 2010

Ore 13.00 Mumbay, linee intasate

Sapete che il momento potenzialmente più produttivo potrebbero essere le ore 13.00 di Mumbay? Ho letto oggi questa interessante analisi che ci mette davanti ad un problema figlio diretto della globalizzaione: la contemporaneità.
E sapete anche che se consideriamo tutte le festività più importanti il 2011 avrà solo 15 settimane non interrotte da festività?
Questa è una sifda importante cui la globalizzazione ci mette di fronte.
Fino ad oggi le uniche risposte che ho sentito dare a questa sfida sono di natura quanitativa: ecco quindi che a New York iniziano a lavorare presto e a Sydney finiscono tardissimo (o viceversa?!).
Ma la risposta, come sempre, non può essere solo quantitativa.
Anzitutto, se la nostra realtà worldwide è legata ad aziende della stessa società sarà importante lavorare sull'autonomia dei centri lontani dalla casa madre.
Ma se in altri continenti abbiamo fornitori e clienti?
Bisognerà sfruttare a pieno i nuovi strumenti comunicativi.
Spesso usiamo in maniera superficiale ed imprecisa email, instant messenger e simili dando maggiore risalto alla loro velocità, alla quasi contemporaneità di queste forme di comunicazione e condivisione scritte. Pensando e riducendo il loro valore aggiunto alla velocità.
Invece è importante che manteniamo sempre una precisione d'intenti, una cura nella forma, una chiarezza dei contenuti e, perchè no, un'eleganza della scrittura.
Chi ci legge potrebbe farlo quando noi siamo in procinto di lavarci i denti e potrebbe inoltrare la nostra email a qualcuno che la legge e prende decisioni quando siamo in fase REM.
Forse val la pena prestare attenzione.
I nuovi canali comunicativi accelerano la comunicazione nel mondo sicuramente per velocità del mezzo in sè. A mio avviso però il vero valore aggiunto è nel potenziale di condivisione che c'è in poco tempo. Quanto riesco a comunicare velocemente e in sicurezza. Non solo quanto velocemente. Per questo c'è sempre stato il telefono.
Il mondo è grande, non è contemporaneo. Saturiamo il web di contenuti e non di semplice tempestività.
Quello che per noi è "subito" forse per chi riceve è già "domattina".

mercoledì 24 novembre 2010

Pancia VS datadriven. Ovvero scelte e successo.

Ieri sera ho fatto una lunga chiacchierata con una persona che mi ha raccontato tutte le sue vicissitudini professionali.
Ad un certo punto gli ho chiesto quale fosse stata la grande difficoltà nel passare da una multinazionale americana ad una grande azienda italiana.
Mi ha risposto che la difficoltà è stata adattarsi al metodo di prendere decisioni. Mi ha spiegato che gli americani sono culturalmente datadriven, ovvero si fanno guidare dai numeri nel prendere le loro decisioni. La società italiana prendeva le sue decisioni di pancia e sulla base dell'esperienza, dell'intuito.
Ha concluso dicendo che è stato difficile adattarsi ad uno avendo lavorato ed essendosi formato con l'altro ma che non ha individuato un modo migliore, non promuoveva o bocciava nessuno dei due.
E qui inizia la mia riflessione. Ci sono molte scuole che ci insegnanao come prendere le decisioni, quali aspetti considerare, come fare gestione del rischio, come analizzare possibili scenari, come avere spirito imprenditoriale.
Ma a cosa servono? Come si fa ad avere la certezza di aver preso la giusta decisione?
Non si può. Nel mio solito viaggio in macchina mi sono convinto che le varie scuole che ci insegnano come fare a prendere decisioni servano in realtà ad altro. Non hanno lo scopo di abbassare il livello di rischio, hanno l'obiettivo di darci la giusta spinta nel perseguire la nostra decisione. La grande azienda italiana che decide di pancia o la multinazionale statunitense che prende decisioni in base ai numeri si assumono ugualmente dei rischi. La differenza è che il management di cultura americana, per essere motivato e determinato nel perseguire i propri risultati ha bisogno del conforto numerico, il management italiano ha bisogno di credere in qualcosa, di visualizzare un traguardo.
Quindi, se parliamo di livelli di professionalità così alti, non ritengo ci siano metodologie più vincenti di altre, ritengo che ci siano situazioni che ci rendono la scelta più o meno perseguibile e che quindi ci motivano diversamente rispetto alla stessa.
In fondo, fra le varie scuole di pensiero c'è anche chi dice che una scelta, per essere veramente tale, deve essere emotivamente accettabile. Credo che sia più che corretto, se poi per renderla emotivamente accettabile servono numeri, serve la storia, serve la logica o serve l'intuito, poco importa. La cosa importante non è la decisone ma come la si porta avanti.
La stessa cosa coi propri collaboratori. Cosa li convince che la scelta e la direzione in cui li portate è corretta? Il conforto dei numeri, la condivisione del progetto, la spiegazione logica oppure semplicemente la leadership del capo. In ogni caso credo che l'unica vera leva sia il coinvolgimento, sia il comunicare e condividere le scelte e le decisioni. In questo modo si capisce se sono emotivamente accettabili e condivise e se quindi avranno successo oppure no.

lunedì 22 novembre 2010

Documentario GOOGLE

Ieri sera ho visto un documentario che parlava di Google.
Ovviamente la mia attenzione è ricaduta sulle parti che riguardavano il personale.
Alcuni aspetti sono di un altro pianeta: il fatto che i dipendenti vengano invitati a dedicare il 20% del loro tempo ad attività che ritengono importanti, a prescindere che siano pertinenti col lavoro; il fatto che vi siano lavagne bianche ovunque dove prendere appunti; la grande condivisione di tutte le informazioni nonostante la chiusura delle stesse informazioni verso l'esterno; alcune modalità di fare le riunioni, in particolare mi ha colpito la camminata settimanale, che è meno banale di quel che sembra.
In realtà, alla fine, la cosa che più mi ha incuriosito è stata la selezione.
Partiamo un passo indietro. Cosa fa Google: offre servizi on line agli utenti e ottiene ricavi delle pubblicità che compaiono a margine di tali servizi (pubblicità sempre molto discrete, solo testo). Ad esempio è molto bello come loro parlavano degli utilizzatori come dei loro veri clienti, nonostante prendano soldi da chi occupa gli spazi pubblicitari.
Siamo al 2.0 dei servizi, la cosa che ancora sfugge alle banche: io non sono quello che ti paga ma sono ugualmente il tuo cliente. Se io sono soddisfatto altri ti pagheranno.
Quindi si tratta di un manipolo di ingegneri informatici che deve anticipare il più possibile le esigenze dei clienti e tradurle in idee, quindi in codici, quindi in servizi.
C'è molta creatività e ricerca.
Bene, ieri raccontavano di percorsi di selezione che prevedono anche 15 colloqui.
Perchè questo? Perchè la parte importante è capire se la persona può inserisi bene nel gruppo, se ne potrà condividere cultura, modelli, valori, obiettivi, modalità operative.
Le conoscenze, gli ottimi voti accademici sono condizione necessaria ma non sufficiente: ci devono essere caratteristiche personali che facilitino l'integrazione.
Che spettacolo, non mi viene da aggiungere altro.
la cultura organizzativa, i modelli mentali, i valori, il clima sono al centro del processo di seleizone.
Certo, magari non è sempre così, magari lo è solo per determinate figure.
Però è molto interessante, credo che cercherò di approfondire la cosa, ci saranno scritti, racconti.
Certo, pensando alla nostra realtà fa sorridere, specialmente se pensiamo che un certo livello di attenzione verso le risorse umane l'abbiamo avuto in Italia qualche decennio fa.....Adriano Olivetti.

domenica 21 novembre 2010

Inutilità delle eccellenze - provocazione domenicale

Come spesso capita esordirò con un commneto sul calcio. Però non disperate, vi metterò a conoscenza di un pensiero che non c'entra col calcio.
Ieri sera il Milan ha vinto battendo la Fiorentina con un goal da spiaggia di Ibraimovic.
Da Interista adesso odio profondamente Ibra (in senso sportivo). L'ho amato quando era allla Juve per il suo modo di prendere in giro il mondo, per la sua strafottenza, ma adesso non ce la posso fare.
Comunque, volevo parlare di eccellenze e della loro inutilità.
Ibra è un giocatore eccellente, che gioca partite eccellenti e che fa vincere la sua squadra.
Questo è un caso in cui l'eccellenza si dimostra utile, almeno nel breve periodo.
Nel gioco di squadra, così come nel lavoro in team, non sempre l'eccellenza serve. Se io fossi il progettista di una macchina di formula uno, mettiamo quello che deve sviluppare il motore, avrei come input di creare un motore con prestazioni eccellenti, cavalli, coppia, affidabilità. Bene, potrei disegnare e realizzare un supermotore con tutte queste prestazioni eccellenti ma con un ingombro ed un peso non funzionali. Sarebbe un problema di chi si occupa delll'aerodinamica del mezzo e della sua tenuta di strada. Io avrei fatto una gran cosa...ma inutile.
Se invece mediassi l'eccellenza tecnica che sto creando con le esigenza del team allora forse non avrei il motore migliore ma probabilmente avremo la macchina più veloce.
Chissà, forse le squadre che giocano con Ibra si accontentano di un giocatore incredibile ma potrebbe non essere la soluzione migliore. Magari nei momenti in cui è in forma non si notano problemi ma quando non gira lui che succede?

Ora tutta questa riflessione in realtà è un grande bluff per arrivare ad un conclusione diversa.
Usiamo un altro sport, il tennis, che conosco bene.
Andy Roddick, tennista americano, è dotato di un gran servizio. Serve ad una velocità impressionante e genera dal servizio un mucchio di punti. Roger Federer serve visibilmente più piano di lui e di molti altri ma genera ugualmente un gran numero di punti. Questo perchè non serve forte ma serve bene.
Non è mai vero che le eccellenze sono inutili e non servono, è vero invece pensare e capire quali sono realmente le eccellenze che ci chiede il team o che sono necessarie. In alcuni casi, contro alcuni avversari, è eccellente servire piano, magari addirittura semplice, per non vedersi tornare in dietro la pallina a velocità accellerata.
Se mai ci dovesse capitare che il nostro meglio non è sufficiente forse è il caso di ripensare a quale "nostro meglio" è opportuno mettere in campo.

Vedere, capire, sentire cosa ci viene richiesto da ciò che ci circonda viene spesso tralasciato ma è indubbiamente il momento in cui si gioca la riuscita delle nostre eccellenze.

giovedì 18 novembre 2010

Cartelli stradali

Sapete che il nostro cervello, quando legge una parola ne identifica anche la forma.
Per questo alcuni cartelli stradali usano lettere maiuscole e minuscole, perchè caratterizzano maggiormente una "forma" rendendo più immediato il riconoscimento del cartello. Quando leggiamo ad "alta velocità" l'attività di completamento del nostro cervello è molto importante. ecco perchè si cerca di facilitarla.
In Italia direi che non è così, son tutti a lettere maiuscole, ma in Inghilterra mi risulta siano maiuscoli e minuscoli. In questo modo, anche con un'occhiata fugace, diamo al nostro cervello maggiori elementi per identificare la forma del cartello e abbinare alla forma la parola e quindi farci capire la destinazione.
Anche la scelta dei colori è fatta per rendere più facile una lettura immediata, per far rislatare la scritta mantenendo netti i contorni ma allo stesso tempo dando visibilità al segnale. Se avete avuto occasione di girare saprete che i cartelli sono sempre a sfondo blu o verde, magari ivnertiti rispetto ai nostri (blu autostrada, verde SS.).
Detto questo, buona strada.
Ah, avete mai fatto caso che l'omino dei lavori in corso pare uno che non riesce ad aprire un ombrello........

Superman è un Dirigente



Ma i dirigenti non sono superman. Questo per fugare dubbi sin dall'inizio.
Oggi sono otto anni che mi son laureato. Complimenti a me.
Faccio un lavoro che mi ha sempre portato, sin da quando ero molto freshman, a contatto con un sacco di dirigenti.
Mi è capitato spesso di vedere persone trasformate in dirigenti (si usa proprio l'espressione "trasformare", forse perchè si ritiene che possano accadere miracoli con la sola imposizione della dirigenza). Durante la mia prima esperienza professionale ho imparato a dare un gran valore al livello e a capire che non tutti siamo destinati a diventare dirigenti, fortunatamente. Non è un traguardo, è una trasformazione. Non riguarda "solo" la propria professionalità, riguarda l'approccio.
Ragionando di questi aspetti questa mattina in macchina (cosa farò quando la venderò?!?!?!) ho cominciato a mugugnare fra me e me riguardo alle differenze fra il dirigente e il quadro, poteri, incarichi, autonomie, responsabilità. Da lì arrivare ai poteri dei supereroi è stato più facile di quel che credessi.
Poi ho capito che in effetti c'è un superoe che incarna bene lo spirito del dirigente.
Superman.
Ora, non è nulla che riguardi il suo potere o la sua forza. Semplicemente questo:
ogni mattina Peter Parker si sveglia Peter Parker e, al bisogno, si veste da Uomo Ragno, salva il mondo, bacia la ragazza, uccide inavvertitamente (perchè i superoi sono buoni) il cattivo. Però fino al morso del ragno era Peter Parker, rimane Peter Parker. Così come Bruce Wayne è Bruce Wayne fino a quando non c'è bisogno di Batman.
Chiaro dove voglio arrivare?
Superman è sempre Superman. Clark Kent è una copertura. Non esiste. Superman non diventa superoe all'occorrenza, diventa "finto normale" per copertura.
Ecco, se mai dovessi sintetizzare cosa ho imparato sull'essere dirigente in questi primi anni di carriera, lo sintetizzerei così. Quando uno smette di mettersi i panni del dipendente nel momento in cui timbra il cartellino ma si veste sempre i panni dell'azienda, allora è possibile che possa, un gionro, essere dirigente.

Ovvio, è una condizione necessaria ma non sufficiente (adoro dai tempi del liceo questa espressione) però giunti ad un livello di crescita di un certo tipo (e cioè avendo accumulato molti superpoteri in azienda) la differenza fra essere Superman o l'Uomo Ragno è nell'approccio.

Bene, questo ha un impatto anche sulle mie motivazioni personali, "ma questa è un'altra storia" (cit. M.Ende).

Ultima necessaria precisazione: tutto quanto IMHO!

lunedì 15 novembre 2010

Attenzione, concentrazione, ritmo e ....

Ieri sera ho amaramente visto l'Inter perdere un derby.
Pazienza, ne perderemo altri e ne vinceremo altri. Oltre a qualche pareggio, ovviamente...
Comunque, non è di questo che volevo parlare, ovvio.
Volevo parlare di concentrazione.
Bene, ieri sera ho visto Snejder battere due calci d'angolo in maniera vergognosa.
E' dai tempi di Recoba che mi chiedo come faccia un professionista, con la palla ferma, il giusto tempo per pensarci e un contesto tutto sommato conosciuto, a sbagliare un calcio d'angolo.
Poi magari, dopo due minuti fa una cosa incredibile per difficoltà tecnica.
Credo sia un problema di concentrazione. Come sempre questo pensiero ha passato la notte e questa mattina in macchina è tornato alla mente, allargandosi.
Quante volte ci capita di fare o di veder fare semplici azioni in maniera incredibilmente sbagliata, senza apparente motivo? Non pariliamo di situazoni in cui le persone non sono motivate, non voglio credere che i calciatori che sbagliano i calci d'angolo non siano motivati, parlo di quelle situazioni troppo facili, quando il livello di attenzione scende talmente tanto che quello che è facile diventa difficile e non ce ne rendiamo conto. La confidenza con certi meccanismi, la sicurezza e l'apparente facilità del compito ci inducono a sottovalutare la cosa. Fino a quando non è troppo tardi.
Forse da piccoli abbiamo fatto poca attenzione (?!?) quando le maestre ci invitavano a stare concentrati e adesso incappiamo in situaizoni incredibili per chi ci guarda.

domenica 14 novembre 2010

Comunicazione e panni da lavare

Ci sono alcune attività che vengono svolte in maniera non efficace per diversi motivi.

Prendiamo come esempio sciocco, ma spero non banale, il ciclo di lavaggio dei vestiti nella mia azienda-famiglia.

Gli input del ciclo possono essere più d'uno:

La cesta dei panni sporchi è piena; mi manca una camicia da indossare; vorrei mettere per la cena di sabato proprio quel paio di pantaloni. Solo per citarne alcuni.

La fase successiva è la preparazione del carico e l'avvio della lavatrice. Consideriamolo come un'unica attività.

Poi il mezzo elettromeccanico lava e la fase successiva è stendere.

Ultima fase, stirare.

Bene, a mio avviso il ciclo potrebbe essere gestito con più efficacia da una sola persona. Non richiede competenze tecniche particolari (o che non possano essere apprese), in aggiunta non ci sono troppe occasioni di miglioramento o modifica del ciclo stesso. Spezzare e distribuire le fasi implica complicazioni.

Però a monte ci sono altre valutazioni. Veniamo a descrivere come funziona in casa mia, poi arriviamo alle valutazioni.

Io sono mortalmente pigro a livello domestico e il mio contributo per questa attività si esaurisce nello stendere i panni (cosa in cui comunque sono bravo). Raramente faccio la lavatrice e raramente senza una supervisione diretta.

Se una persona facesse tutto sarebbe più facile, dicevamo, poichè potrebbe gestire i tempi e gli spazi.

In casa mia, però anche con la divisione in fasi, funziona bene.

Cosa fa funzonare tutto?

La comunicazione.

Un processo semplice, complicato dal fatto che è suddiviso su più aree/persone/funzioni rimane efficace perchè c'è comunicazione.

Voi direte, perchè non può fare tutto Giulia? Perchè questo mi creerebbe difficoltà. Attenzione, è una necessità mia e non di Giulia, questo è importante per seguire il ragionamento. Come dicevo, io sono molto pigro ma voglio difendere il mio ruolo attivo anche a livello domestico e preferisco far leva sulla comunicazione e gesire un processo non efficace che non far saltare equilibri di motivazioni interni.

Spero che sia chiaro questo passaggio: vi sono necessità superiori all'efficacia del processo. Questo è il succo. Rendiamo complicata una cosa semplice perchè io ho bisogno di dare il mio contributo. Eccoci.

Questo implica che il mio sforzo per mantenere l'equilibrio di prima è nella comunicazione. Nel dire che i panni sono da lavare, nell'ascoltare quando mi dicono che la lavatrice funziona (o nel essere attento io stesso a sentire che lei funziona o nel far caso quando rientro se le luci del disply sono accese), nel comunicare che i panni sono aciutti. Poi, dato che la comunicazione ha un potere infinito, ci offre l'occasione per rendere un processo inefficace un processo comunque ottimale e di creare occasioni di miglioramento. Occasioni figlie del confronto.



Quindi, cosa volevo dire in tutto questo caos? Intanto che secondo me, se non si considerano le emozioni e le motivazioni, nessun processo potrà mai dirsi efficace. La programmazione organizzativa deve considerare questi aspetti. Diversamente dovrà considerare dei fallimenti o rendersi conto che ci sono valori superiori all'efficacia produttiva.

In aggiunta direi che qualunque processo apparentemente non funzionale può essere compensato con la comunicazione (e l'ASCOLTO, lo metto fra parentesi ma maiuscolo).

In conclusione ritengo che qualunque processo preveda comunicazione crea un'occasione di confronto. Lo sforzo organizzativo di dare spazi e tempi alla comunicazione ed al cofnronto è inferiore al valore aggiunto che se ne può ricavare. Tenendo presente che il rischio di fallimento è inferiori.



In fin dei conti, se ho imparato ha stendere bene le camice dai feedback ricevuti vuol dire che funziona....



Ora vado, non sento più la centrifuga, è il mio turno.



p.s. ogni riferimento a modelli gestionali famigliari è puramente casuale e potrebbe non rispecchiare la verità. Oppure, sappiate che non è vero che stendo solo i panni......

venerdì 12 novembre 2010

Vorrei fare un errore bellissimo

Ritengo di essere una persona che nella vita ha avuto molto culo (ho usato la parola culo perchè assieme alla parola Berlusconi credo sia una delle più googleate e quindi spero di recuperare qualche contatto. Fra l'altro con queta parentesi ho usato anche la parola Berlusconi, che è molto ricercata. Sono un genio del crimine).
Tornando a noi, ho avuto fortuna perchè professionalmente ho sempre avuto la possibilità di fare molti errori e di imparare da essi.
Le persone che mi hanno guidato mi hanno sempre messo in situazioni di grande tranquillità rispetto ai miei errori chiedendomi solo di imparare da essi, di non ripeterli due o tre volte ma, casomai, di cambiare errore.
Questo mi ha fatto crescere con una forte cultura dell'errore e ho sviluppato una grande attenzione rispetto ai diversi inciampi in cui possiamo incorrere.
Ho imparato che anche nello sbagliare si possono fare errori.
Succede quando non siamo in grado di trarne valore aggiunto, quando non siamo in condizione di risalire alle cause del nostro sbaglio.
E' importante avere la serenità di dedicare tempo ai nostri errori.
Altra cosa importante che ho capito è che c'è differenza fra l'errore e la persona che lo commette. Mi è servito per acquisire la giusta serenità davanti alle mie cavolate. La scuola in questo non aiuta, tende a non far differenza fra performance e persona. Tende a giudicare la persona insufficiente e non una serie di prestazioni della stessa.
Mettere la persona al centro dell'errore rischia di generare comportamenti di chiusura e di far perdere l'occasione di imparare dall'errore.
Io spero di riuscire a passare questi concetti a chi mi è vicino, non solo professionalmente. Sbagliare è una delle migliori occasioni che abbiamo per capire in pratica la logica delle cose. Alcune tecniche di analisi del lavoro partono dall'analisi degli errori. Sbagliare ci offre un'opportunità di imparare che forse neanche una performance perfetta ci garantisce.
Essere davanti ad un proprio errore ci mette in condizioni di avere tempo per pensare, per valutare, per ragionare. Procedere dritti e spediti senza intoppi può privarci di queste occasioni e nel tempo renderci meno consapevoli.
Ovvio che se potessi scegliere vorrei non sbagliare mai ma, dal momento che sono altamente "fallibile", cerco di mettermi nelle condizioni di non chiudermi davanti ad un mio errore e di giustificarlo solo fin dove il farlo aggiunge elementi di analisi.
Perchè tutto questo? Non ne ho idea, come sempre è un pensiero della sera, di prima di addormentarsi che la mattina, nel viaggio verso l'ufficio, diventa testo.
Quindi buon errore a tutti, se vi capita di sbagliare sorridete, assumetevene la responsabilità ma ritirate anche come premio una occasione di apprendimento.

Thanks God it's friday.

mercoledì 10 novembre 2010

Volevo spostare i mobili in salotto.

Ieri sera mi guardavo attorno, in casa, e ho pensato: se cambio posizione ai mobili?
Prima di prendere e sbaraccare tutto attirando l'odio di Giulia e il pianto di Gaia ho cercato di visualizzare in mente eventuali nuove combinazioni.
Ovviamente pensando di sistemare e utilizzare quanto già presente.
Dopo un po' di elucubrazioni ho appurato che stava tutto bene così, che era la miglior combinazione possibile. La migliore possibile con quello a disposizione.
Il pensiero mi è rimasto in testa fino a questa mattina dove ho capito cosa era successo.
Ieri sera per me non aveva senso fare cambiamento poichè non ho visto possibilità di miglioramento.
Credo di essere già incappato in questa riflessione su questo blog ma in questo periodo ritorna per me molto forte.
Si sente continuamente parlare di cambiamento, esistono anche manaager che gestiscono il cambiamento.
Bene, a me il cambiamento non interessa. In troppi casi ho visto cambiare le cose solo per far vedere che c'era qualcosa di diverso, di nuovo.
Non mi basta più. Il cambiamento non è e non potrà mai essere un fine. E' un mezzo per il miglioramento.
Purtroppo la nostra necessità di mostrarci in movimento, di far vedere che siamo al passo coi tempi, con una società iperveloce ci ha troppo distratto da questa semplice partenza.
Troppe volte il cambaimento fallisce perchè comporta solo stress nella ricerca di nuovi adattamenti. Se non porta migliormaneto non può riuscire.
Il miglioramento poi è un altro concetto che andrebbe esploso, bisognerebbe capire bene cos'è per me miglioramento.
Dovermi abituare ad una nuova posizione del divano, ad una nuova posizone del telecomando perchè ho spostato il tavolino, ad una nuova luce mentre leggo in poltrona perchè ho girato il salotto può darsi sia uno sforzo non congruo con quello che posso e voglio fare.
Invece, se inserisco un tavolino che mi manca, se metto una libreria perchè così tengo ordinati i libri, se compro una lampada apposta per leggere e magari anche una tenda nuova per abbellir euna finestra allora cambio per migliorare ed il periodo di adattamento sarà funzionale.

Tutto questo per dire che se venite a cena da me i mobili sono ancora tutti al loro posto.

lunedì 8 novembre 2010

La maratona non ha record

Questa è la stagione della maratona di New York. Una volta presi l'impegno di correre l'edizione del 2011 ma ad oggi la vedo ardua.
Comunque, non è di questo che volevo parlare.
Anzitutto sapete che non esiste un record del mondo della maratona? Esiste un miglior tempo di sempre ma non un record. Questo perchè i tracciati non sono tutti uguali e i tempi non sono comparabili: cambiano la forma, alcune volte possono essere crcuiti, possono esserci dei dislivelli, ecc ecc.
Comunque, la miglior prestazione di sempre, ad oggi, è di Heile Gebressilase (chissà se l'ho scritto bene) uno che ha vinto tutto il possibile sui 5.000 e 10.000 metri.
Il suo tempo è di 2 ore 3 minuti e 59 secondi. Per fare 42195 metri. Mi pare l'abbia fatto nel febbraio 2008.
Ora, se leggete il tempo così può dire e non dire. Però pensate che la maratona significa sostanzialmente correre 100 metri per 422 volte (circa).
Bene, se considerate il tempo del grande Gebre, lui ha fatto i 100 metri per 422 volte consecutive, su fondo variabile, in 17,5 secondi circa. Mamma mia!!!!!
Letto così è impensabile. Come si fa!? Io credo di poter correre i 100 metri in 15 secondi. Sono abbastanza lento, lo ammetto. Ma caspita, correrli per 422 volte con quel tempo. Correrli consecutivamente per 422 volte!!!!!
Metteteci che all'inizio uno è freddo ed alla fine è stanco, ma nel mezzo che tempi riesce a fare!? Bene, cosa voglio dire? Non ne ho idea, volevo solo fare una riflessione semplice. Chissà cosa succederebbe ad andare ad inizio maratona da Gebre e dirgli "senti bello, adesso mi fai 422 ripetute sui 100 metri sotto i venti secondi, senza riposo fra una ripetuta ed un'altra". Forse sviene.
Chissà, forse alle volte scomporre troppo non aiuta, forse alcune volte i problemi vanno presi tutti assieme, forse bisogna solo iniziare a correre.
E qusto è un pensiero per me, che spero di ricordarmi: ogni tanto bisogna solo iniziare a correre.

domenica 7 novembre 2010

Volevo saper cantare

Ieri sera mi sono buttato a letto facendo riflessioni sulle prossime tappe di crescita di mia figlia.
Poi, come sempre, dopo un paio di minuti di lucidità, i miei pensieri sono esplosi in mille direzioni tipo una diaspora impedendomi di fare mente locale e di arrivare ad una qualunque conclusione. Mica che volessi produrre idee rivoluzionarie, solo volevo andarmi a letto con un po' d'ordine.
Pazienza.
Comunque, tutta questa esplosione mi ha riportato a quadno da bambino sognavo di avere dei superpoteri (niente male come volo pindarico....).
Ho riflettuto su come da piccolo il concetto di "essere speciale" sia molto legato all'avere caratteristiche utili, mentre col tempo mi sono concentraro sull'ESSERE speciale più che sull'AVERE caratteristiche che mi rendono tale. Persone molto più brillanti di me hanno già fatto questo ragionamento e non è questo che voglio approfondire. Anche perchè poi, sempre ieri notte, mi sono focalizzato sui talenti che avrei voluto avere ma che non ho.
Ok, mi sono molto confuso fra talenti che non ho e i talenti che non ho provato a sviluppare. Quindi ho pensato anche a caratteristiche che non ho ma che avrei potuto avere. Alla fine non è venuto fuori un grand'elenco, forse perchè comunque mi vado molto bene e cerco di migliorare quello che ho (o almeno non peggiorarlo) senza incantarmi e fossilizzarmi sul avrei voluto ma non è accaduto. Chissà se mi sono spiegato, ieri notte mi pareva un concetto chiaro.
Comunque, in primis mi sarebbe piaciuto essere uno di quelli bravi a scrivere. Invece non mi riesce bene, sono sempre poco lineare, molto "parlato" e arroccato. Quando comunico a voce con le persone sono effettivamente bravo ad esprimermi male ma a farmi capire ugualmente e quando scrivo un po' mi perdo. Mi sarebbe piaciuto saper cantare. Caspita, questo avrei prorpio voluto. Perchè cantare mi diverte, un sacco. Fra l'altro mi ci vedo proprio con un microfono e un pubblico. Mica uno stadio, mi andava bene il Ghinea. Invece ho un vocione da mostro delle caverne che va' bene per prendersi la ragione nelle dispute verbali ma poco per cantare. Avrei voluto essere un po' più alto, quei centimetri che mi mancano per essere 1,8 mt. Mi sarebbe piaciuto essere più coraggioso. La prudenza è una delle mie caratteristiche, sono sempre troppo controllato per non esserlo. Però un po' di coraggio...fare un po' lo scioccco sciando; fare i tuffi dalla palizzata o nel fiume senza sentirsi morire dentro. Insomma, quel coraggio che ci porta ad avere qualche cicatrice in più ma nessuna conseguenza seria.
Avrei voluto essere un calciatore migliore. Però da piccolo ho incontrato un allenatore che mi ha fatto odiare gli allenamenti e quello che faccio l'ho imparato al campetto (per la serie il mio ring è la strada). Invece ho un buon sinistro e se mi fossi allenato adesso sarei un ottimo ex calciatore da tornero amatoriale. Un giorno scriverò di quell'allenatore che ha fatto odiare il calcio ad un bambino di 5 anni.
Ad ogni buon conto alla fine non sono molte cose.
Ieri sera sono arrivato fin qui.
Stamattina mi son svegliato ed ho pensato che alla fine ho "solo" 32 anni, un calciatore non lo diventerò mai ma tante cose potrei propri farle.
Ok, quando avrò le ultime risposte taglierò la barba.

mercoledì 3 novembre 2010

PIACERE, MARY POPPINS: CONSULENTE FAMIGLIARE!

Ritrovo e pubblico un mio vecchio post.

Con l’espressione “sindrome di Mary Poppins” (che non ha alcuna validità scientifica o riscontro in letteratura) si intende identificare la tendenza che alcune persone hanno di fuggire davanti al lavoro routinario ove con questa connotazione non si intende una professione che si ripete simile o identica giorno per giorno o settimana per settimana, ma il lavoro che ha un certo livello di costanza, di prevedibilità, di tranquillità. Chi è caratterizzato da questa sindrome (che ribadiamo non ha nulla del patologico ma è semplicemente descrittiva di un comportamento ne più ne meno corretto di altri) ha l’irrefrenabile tendenza a fuggire dalle situazioni di stabilità. Solitamente queste persone si riconoscono sin dal curriculum: hanno sempre ricoperto ruoli di prestigio, di controllo, con alto potere decisionale e forte strategicità ma vi sono rimasti per brevi periodi, dall’anno ai cinque anni.
Questi individui hanno uno sviluppo di carriera inter-aziendale, accrescono il proprio ruolo passando da una realtà all’altra sempre alla ricerca di stimoli; mantengono buoni rapporti con le aziende in cui sono stati e spesso continuano a collaborarvi.
Proprio come Mary Poppins si muovono da una criticità all’altra e, proprio come la bellissima bambinaia interpretata da Julie Andrews, trovano la pace e l’equilibrio quando da dipendenti si trasformano in consulenti. Ormai il panorama italiano è pieno di “partite IVA” e di collaboratori che si offrono alle aziende come risolutori di problematiche più disparate ma il vero consulente, quello che esercita il proprio mestiere per passione, è inevitabilmente affetto dalla sindrome di Mary Poppins.
Come la famosa baby sitter anche il consulente ama le situazioni problematiche, viene chiamato dalle aziende in un periodo di burrasca e termina il suo lavoro superato questo momento, abbandona spesso la nave prima che questa cominci a godersi nuovamente la propria crociera portandosi via un sorriso soddisfatto ed uno strano borsone (in questo caso si spera colmo anche di vil denaro oltre che di esperienze ed oggetti fantastici).
In realtà Mary Poppins fa molto più di questo e chi è “affetto” dall’omonima sindrome, e ha come obiettivo raggiungere il livello di perfezione della tata del film Disney, deve ricordare che lei saluta la famiglia presso cui si è recata assicurando che non tornerà mai più, indicando alla stessa un modo per essere felice.
Il consulente dovrebbe dare le stesse garanzie, promettere che il suo intervento non sarà più necessario ed implementare un metodo (l’espressione metodo deve essere utilizzata nell’accezione più ampia possibile) per cui l’azienda riuscirà ad affrontare eventuali altri momenti di difficoltà in autonomia. In qualunque azienda può capitare di aver necessità della consulenza di una figura esterna, non condizionata dai vari elementi che compongono la cultura, la storia e la politica di una azienda, ma questo non deve essere la costanza; l’azienda deve trovare il suo equilibrio, sviluppare le proprie competenze e tecniche nella risoluzione dei problemi a questo deve contribuire il consulente che svolge completamente il proprio mestiere. Il consulente, libero di tutti i vincoli di sudditanza aziendale (si spera) è anche in grado di identificare i problemi dei bambini ma di educare anche i signori Banks, proprio come Mary Poppins. Non si limita ad intervenire su chi è manifestazione del problema, ma anche indicando a chi l’ha interpellata come migliorare a sua volta. Un fosso si fa con due rive e Mary Poppins questo lo sapeva.
Non è un caso che il consulente Mary Poppins sia stato scelto con l’annuncio della linea e non dell’alta dirigenza, continuando nella similitudine. Una delle prime valutazioni è proprio di capire quale consulente fra quelli che la direzione ha in mente è in sintonia con la cultura della linea su cui deve intervenire.

Ma torniamo alla nostra “sindrome”. Essere dei bravi consulenti fino al punto di avere in dotazione uno strumento che certifichi la propria perfezione non è facile, come per tutti i ruoli lavorativi è un insieme di caratteristiche, attitudini, capacità, predisposizioni, motivazioni (e qui mi fermo perché in tanti hanno già detto e scritto tante cose giuste). Imparare a riconoscere le proprie caratteristiche può aiutare nella scelta del proprio ruolo, nell’impostare la propria carriera. Molto importante è anche imparare a riconoscere le caratteristiche di chi ci sta di fronte, sia che esso sia un consulente o che sia un’azienda nostra cliente, perché ci permette di accettare più facilmente il ruolo degli altri, il valore aggiunto che possono dare all’azienda ed al nostro lavoro.
Essere come Mary Poppins o come Mr Banks è una scelta e in molti casi è dettata da reali attitudini e motivazioni, attitudini e motivazioni che possono rendere bravi consulenti ma che allo stesso tempo rendevano impiegati insoddisfatti o limitati (e viceversa, logicamente).

Mary Poppins è infatti un concentrato di dinamismo, capacità di gestire lo stress, di leggere e risolvere i problemi, è dotata di creatività, si assume senza problemi responsabilità e rischi, si mette continuamente in gioco, è propositiva, ma è anche una persona che ha bisogno di nuovi stimoli esterni, di cambiare spesso aria (in genere quando il vento gira), di poter staccare la spina finito un compito, non vorrei dire un’eresia ma non sappiamo se Mary Poppins sarebbe stata una brava maestra d’asilo o una brava bambinaia se avesse dovuto seguire per molto più tempo gli stessi bambini.
Mr Banks invece è una persona abituata tutti i giorni a crescere i suoi figli e a lavorare per la propria carriera in banca (comunque perseguita sempre nell’interesse dei figli) e che ha imboccato una strada sbagliata e ha bisogno di una indicazione. Ogni giorno però gestisce il proprio compito e dovrà continuare a gestirlo anche quando il vento girerà e Mary Poppins prenderà un’altra via.
Sono caratteristiche diverse che si adattano a ruoli diversi e che bisogna comprendere per trovare la giusta collocazione: l’incantevole bambinaia che tutti avremmo voluto ci aiutasse a prendere le medicine cantando e avesse contribuito a crescerci non era il genitore migliore del mondo, era la migliore Mary Poppins possibile.
Allo stesso modo il consulente che entra nella nostra azienda e deve collaborare con noi nella risoluzione di un problema non è la nostra copia perfetta ed infallibile, è molto bravo a fare il suo mestiere, molto bravo ad aiutarci coi nostri compiti.

Un’ultima riflessione: quando Mary Poppins arriva nella sua nuova casa (azienda) molto spesso incontra delle resistenze che lei è molto abile a fronteggiare e ribattere e delle situazioni di forte accettazione (come accade ai bimbi di casa Banks). Allo stesso modo il consulente incontra da una parte diffidenza dalla stessa azienda che a lui si è rivolta e dall’altra invece fiducia forse eccessiva.
Ripercorrendo lo schema del film si può dire che il consulente è facile, ma non automatico, trovi resistenze da coloro che deve aiutare e grandi aspettative da parte di chi occupa funzioni confinanti (magari con momenti collaborativi alla prima).

Basterebbe semplicemente ricordare che ognuno in queste dinamiche cerca di svolgere il proprio compito sfruttando il più possibile le proprie caratteristiche sapendo che molto probabilmente Mr Banks senza Mary Poppins non avrebbe riconquistato i suoi figli e la promozione in banca e che Mary Poppins in casa Banks non sarebbe resistita all’infinito. In fin dei conti il metro sul quale era riportato che lei era perfetta era il suo, può darsi che ci fosse un trucco, nessuno è perfetto, cerchiamo di ricoprire ruoli ottimali nel miglior modo possibile.

Le giornate ideali

Così giusto per capire oggi cosa mi piace fare. Naturalmente sono provvisiorie e variabili. Di fatto mi piace sempre avere in mente cosa vorrei fare. Quando non ci riesco ci riprovo. Quando ci riesco me lo godo.

Giornata festiva.
Sveglia, coccole, giochi e pernacchie sulla pancia nel lettone con Giulia e Gaia.
Colazione. Altre coccole con le pupe. Giretto in moto con gli amici per caffè collinare. Rientro per pranzo con racconti di mia mattina che si incrociano con racconti delle pupe. Passeggiata o giretto con le pupe in cui ci ribaltiamo di chiacchiere e magari Giulia fa pure un po' di shopping. Rientro con sosta al supermercato dei nonni per chiacchiere col nonno e tante coccole con la nonna.
Rientro a casa, preparazione per la serata, aperitivo con nonno Gianni e nonna Stefy e poi tre opzioni: Gaia dai nonni e cenetta con Giulia; cenetta con Gaia e Giulia; cena festa con tutti gli amici.

Giornata di lavoro.
Sveglia, coccole con le mie donne. Al lavoro in moto. Mattinata con riunione dalla quale si esce con una decisione condivisa e risolutiva. Pausa pranzo con telefonata alle donne e palestra. Pomeriggio con colloqui e attività di pianificazione. Rientro in serata, passaggio al supermercato per commento della giornata col nonno (moto, lavoro, politica, società). Rientro a casa con scorpacciata di donne e chiacchiere. Serata a giocare, leggere e pensare. Ultime chiacchiere nel letto prima di dormire.

Capitan Zanetti, Obiettivi ed emozioni

Ieri sera ho visto la partita. L’Inter ha perso ed ho sentito alcuni cronisti e giornalisti dire che è colpa dell’appagamento. I giocatori sono gli stessi, la scorsa stagione hanno vinto tutto e adesso, con la pancia piena, non sentono nuovi stimoli.
Riflettevo su queste affermazioni e ho pensato che secondo me hanno poco fondamento, temo.
Viviamo in una società che ci impone costantemente il raggiungimento di obiettivi. Abbiamo obiettivi annuali, trimestrali, mensili, periodici, di sviluppo, di crescita, personali, strategici, finanziari, di margine, temporali e chi più ne ha più ne metta.
Siamo costantemente orientati al perseguimento di obiettivi.
I più virtuosi con cui mi è capitato di dialogare hanno obiettivi eccellenti, ma è quasi un bluff linguistico.
Tornando alla mia cara Inter, sarebbe bello se i calciatori riuscissero realmente a godersi il raggiungimento di un obiettivo per tutti i mesi che gli stanno attribuendo i cronisti.
Mi piacerebbe se Capitan Zanetti, a giugno, commentando una stagione con pochi risultati dicesse: “ma vi ricordate cosa abbiamo fatto lo scorso anno, scusate per questa stagione ma ce lo dovevamo godere un po’. Personalmente è un decennio che sono qui e non vinco nulla, volevo un po’ godermela”.
Sarebbe bello sentire di qualcuno che realizza un obiettivo (professionale) e se lo gode.
Invece non sarà così a fine anno se non avremo vinto nulla non sarà per l’appagamento ma saranno state le motivazioni a mancare.
Penso infatti che motivazioni ed appagamento possano essere parenti ma non viaggino necessariamente in coppia.
Infatti, se il risultato non ha significato potrebbe giocare un ruolo importante sulla motivazione.
Penso a cosa sarebbe conseguire mensilmente dei risultati professionali (magari commerciali) che per me non hanno significato. Mi dovrei motivare per il fatto che l’ho raggiunto senza considerare importante il cosa ho raggiunto. La vedo dura, molto dura.
E se invece perseguo e raggiungo un obiettivo che per me ha valore?
Tornando all’inizio credo che ormai tutti noi ci dobbiamo confrontare con degli obiettivi, è lo strumento che usa la società per dirci che ci stiamo muovendo, che siamo parte di una evoluzione, che siamo dentro. Però questi obiettivi rischiano di impoverirsi, non dico di semplificarsi ma di impoverirsi. Un giorno mi è stato detto che raggiungere dei traguardi non basta più, devono avere significato. Bene, allora come faccio a dare significato ai miei obiettivi?
E qui torniamo la “bluff” dell’obiettivo eccellente. Bluff perché l’obiettivo eccellente non è qualcosa che si raggiunge e basta, è qualcosa che si raggiunge e si deve mantenere. Non ha un tempo, non ha una scadenza, deve essere subito e deve essere oggi.
Quindi un obiettivo senza scadenza, senza tempi, senza tappe? Gli rimane “solo” il significato, solo l’essenza dell’obiettivo in sé. È per questo che è un bluff, perché è uno stato da raggiungere e non un traguardo da tagliare. Il termine obiettivo forse è improprio.
Beh, ho ragionato a lungo su quale fosse la mia mission, quale il mio obiettivo. L’ho trovato. Sono una persona portata per il quieto vivere e per l’equilibrio. Mettere in equilibrio tutte le mie aree di vita è quello che mi porta ad essere felice. Mantenere le mie diversità di interessi, di attività, di relazioni e avere anche momenti di forte individualità, quasi di isolamento è quello che mi riempie la vita senza riuscire a saziarmi mai. Ed è incredibile come questo stato sia adatto a me, ad ogni cambiamento della mia vita.
L’arrivo di Gaia ha riempito la mia vita ma mi ha ridato tempo che non sapevo di avere per fare cose che mi appartengono. Ho scoperto che lei mi ha preso vita, cuore, spazi e tempo ma mi ha restituito il modo di avere altro tempo, altre attività, altri spazi. E questo ritengo sia per due motivi: il primo perché ho capito cosa cerco, non sempre trovo il modo di trovarlo, non sempre riesco ma ho capito cosa cerco; il secondo perché la mia bambina è un gioiello, mi ha fatto scoprire un nuovo modo di intendere i rapporti, fatti di emozioni pure, della totale incapacità di comunicare se non attraverso emozioni.