Cosekeso?

Ciao, questo è il mio blog, il blog nel quale ogni tanto svuoto la mia testa dai vari elementi che la riempiono.
Non c'è quasi nulla di originale, i miei pensieri sono rivisitazioni o rielaborazioni di quello che l'ambiente mi insegna e propone.

Se leggerai qualcosa "buona lettura", se non leggerai nulla "buona giornata"

ATTENZIONE: contiene opinioni altamente personali e variabili

domenica 29 maggio 2011

Unleash the fury

Ok, il titolo del post richiama una delle scene più divertenti di uno dei film più demenziali che abbia mai visto, però in realtà è molto serio, come post.
Voglio partire dalla scena di un altro film che mi è capitato di vedere poco tempo fa. Mi trovavo ad una “conference” e hanno proiettato questa scena.
Adoro questo film e la scena in questione mi ha ispirato una riflessione.



Sapete cosa mi colpisce di questa scena? L’incredibile e irrefrenabile energia che emana il personaggio di Will Smith.
Lui riceve una notizia positiva e l’energia che si libera è immensa.
Mi è venuto da pensare a quanta energia possiamo rilasciare quando ci troviamo davanti a notizie positive. O a quanta possiamo farne rilasciare ad altri quando gli diamo informazioni o notizie positive.
Provate a fare un giro in ospedale, nel reparto dove nascono i bambini. Certo, possono accadere anche brutte cose, può succedere ci siano brutte notizie e sono le peggiori che si possano ricevere.
Però guardate un neo babbo. Non una neo mamma, guardate un neo babbo, sentite quello che emana nell’aria. Le neo mamme sono fantastiche ma loro non fanno la stessa cosa, loro sono fautrici della bella notizia, loro la rendono possibile. I neo babbi sono investiti di questa notizia, sono travolti di positività e se ne vanno in giro con un’energia addosso incredibile. Se un neo babbo vi abbraccia vi può stritolare, è invincibile prima che ritorni nel mondo.
Ecco, proviamo ad assumerci questa responsabilità: noi siamo responsabili delle belle notizie che creiamo per questo mondo e che poi diamo alle persone. Queste belle notizie riempiono di energia positiva l’aria, condividiamole, diamo alle altre persone belle notizie, quando ci sono.
Non può che far succedere qualcosa di straordinario.

mercoledì 25 maggio 2011

Stay hungry stay foolish, la lettura di Gaia

G: “Hai due minuti?”
N: “Come no, dimmi pure”.
Ormai sono abituato all’immediatezza della mia bimba.
G: “hai presente quella roba che mi hai lasciato dal leggere, il discorso di Steve Jobs del 2005 alla Stanford University?”
N: “Ah, certo, ti è piaciuto?”
G: “Molto, molto. Mi fa piacere che tu mi mandi certi messaggi”.
N: “Cosa ti ha colpito?”
G: “Molte cose, è denso di letture e di messaggi, non è affatto banale, ogni virgola, ogni frase nasconde un messaggio positivo. Mi piace molto quando dice – ricordarsi che dobbiamo morire è il modo migliore che io conosca per evitare di cadere nella trappola di chi pensa che avete qualcosa da perdere. Siete già nudi. Non c’è ragione per non seguire il vostro cuore – è molto bello questo passaggio. Io ancora sono piccola, a sette mesi ancora sento che la società non mi ha condizionata. Certe convenzioni ancora non mi appartengono, basti pensare che quando mi scappa la faccio dove sono, senza farmi troppi problemi.”
N: “Eh eh, imparerai che non puoi emettere tutti gli odori e i rumori che ti pare”.
G: “Sicuramente e credo che prima o poi da brava signorina imparerò a controllarmi, però il focus era un altro. Vorrei che mi rimanesse sempre la libertà di essere leggera, anzi no, vorrei poter avere sempre la consapevolezza che posso correre dei rischi, che posso buttarmi, che posso investire tutta me stessa nelle cose che faccio, che posso spendere il mio tempo con coraggio e con serenità. Dice sempre Steve Jobs che bisogna far sparire i timori di fallire, ecco io vorrei avere questa serenità. E per far questo ho bisogno del tuo aiuto”.

Voi capite che quando tua figlia di sette mesi ti dice una cosa del genere la voce ti trema, il cervello pensa mille cose, poi quando parli senti che invece sei fermo e sicuro e ti stupisci.
N: “Dimmi pure piccolina”.
G: “Se ti dico che ho bisogno del tuo aiuto per crescere felice, tu hai paura?”
N: “Hmmm, no, sai non ho paura, mi sento responsabilizzato ma in effetti non ho paura”.
G: “Sai perché?”
N: “No, perché?”
G: “Perché tu a me ci tieni, io sono la tua passione, non hai paura ad affrontare qualcosa che mi riguarda perché sai che spenderai tutto te stesso.”
N: “Già”.
G: “Ecco, aiutami ad essere così sempre, aiutami a scegliere con coraggio perché sto seguendo le mie passioni, il mio cuore. Se mi ricorderai di trovare sempre ciò che amo mi metterai al sicuro dalla paura. Ti chiedo questo”.
N: “Mi chiedi di seguire ciò che amo, direi che siamo a cavallo”.
G: “Grazie babbone, adesso mi metti a nanna e accendi la musica che ho sonno?”
N: “’notte nanetta mia”.

domenica 22 maggio 2011

Niels Bohr e la realtà

Faccio un po’ il figo.
Esiste un aforisma di Niel Bohr (un fisico) che dice che il contrario di una verità potrebbe essere un’altra verità.
Nello specifico lui dice che esistono due livelli di verità, quella superficiale nella quale il contrario di una verità è falso ed uno profondo, dove il contrario di una verità può essere vero a sua volta.
Il buon Bohr si riferiva ad un ambito specifico, almeno inizialmente, ovvero sosteneva questa teoria in relazione al fatto che gli elettroni sono sia onde di energia che particelle di materia, per quanto le due cose possano essere in contrapposizione.
Partendo da questa considerazione, che comunque credo sia già sufficiente a darmi un’aurea di figaggine (chissà in quanti blog si cita Bohr e la non contrapposizione fra particelle di materia e onde di energia?!?!), volevo arrivare poco oltre. La realtà in cui ci troviamo ogni giorno è prevalentemente una verità profonda, ci sono delle continuità di situazioni che sono vere anche se fatte di contrapposizioni: Il bello ed il brutto sono veri entrambi, il giusto e l’ingiusto sono veri entrambi. Questo fa parte dell’ampio campo d’azione in cui è possibile esercitare le nostre libertà.
Sono i nostri valori che ci permettono di discriminare cosa è meglio per il nostro bene e cosa scegliere per preservare la nostra esistenza e renderla all’altezza delle nostre aspettative. Non sono le caratteristiche intrinseche delle cose a renderle vere o non vere, esiste il giusto e lo sbagliato ma sono entrambi veri. Niente e nessuno potrà privarci della possibilità di sbagliare, di farci male, di soffrire, niente potrà rendere non vero quello che non ci piace. E per fortuna: ogni limitazione alla verità è una limitazione della realtà e se la realtà si limita anche i nostri spazi di libertà si riducono. Voglio imparare a scegliere e non ridurmi la possibilità di sbagliare perché ho meno possibilità di scelta

mercoledì 18 maggio 2011

Prendere decisioni

Con slancio affronto il tema delle decisioni. Forse perché in questo periodo sono consapevole di doverne prendere. Sapendo già quello che scriverò ho esordito dicendo “sono consapevole…”.
Già, decisioni se ne prendono tante, essere consapevoli di doverne prendere ci offre la possibilità di farci trovare pronti al momento della decisione.
Ma lasciatemi fare un po’ il saccente. Decidere deriva da de-caedere, ovvero togliere, tagliar via. Quindi decidere significa escludere una serie di azioni preferendone una. Quindi si tratta di togliere, di ridurre la complessità.
In realtà la decisione, per poter essere un’azione di riduzione delle azioni possibili, deve prevedere due fasi, una di raccolta di informazioni, di preparazione alla decisione e una seconda che è l’atto di eliminare e scegliere.
La frenesia dei tempi moderni (è una vita che sogno di poter scrivere questa frase in un contesto in cui abbia valenza) porta ad un contrazione di questi tempi, e questo determina che si riducono gli spazi per la raccolta di informazioni.
Questo comporta che ci sia spesso la credenza che le informazioni possano essere prese da chi ha grande competenza e capacità intellettuale in modo che possa ridurre ugualmente le complessità, anche se non ha il tempo di analizzarla nel dettaglio. E’ un po’ un falso mito, specialmente perché le decisioni hanno molto più a che fare con processi emotivi, sociali e politici di quanto abbiamo a che fare con processi intellettuali.
Ecco perché qualche Manager evoluto ogni tanto dice che nella vita fa il decisore, che si è circondato di persone capaci nel prefigurargli gli scenari ed il suo compito è quello di decidere, anche se tecnicamente non è in grado di cogliere appieno gli scenari che i collaboratori gli propongono. Il suo mestiere è un mestiere che ha valenze sociali, culturali, emotive (molto) e politiche. La scelta dell’azione tecnicamente più consona non ha il livello di complessità che ha la scelta dell’opzione tecnicamente valida, condivisa, socialmente accettabile, emotivamente sostenibile, politicamente equilibrata. E questa seconda analisi non è tecnica.

lunedì 16 maggio 2011

Stavolta fotovoltaico

Una volta uno molto sveglio ha detto che nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma.
E’ vero, non lo dico e non lo confermo io, ovviamente, però ci sono alcune trasformazioni che sono più spettacolari di altre, che rendono quasi magico questo passaggio. Ognuno di noi si fa influenzare da qualcosa ed ha la sua preferenza. A me han sempre colpito gli impianti che generano energia elettrica, le centrali. Da piccolo sono stato in gita in una centrale ENEL della mia zona e sono rimasto affascinato. La trasformazione, anzi le trasformazioni, avevano allora qualcosa di “potteriano” e questo fascino ai miei occhi rimane.
Ecco perché mi piacciono i pannelli solari. In un altro post ho parlato di energia nucleare, di quella che era la mia percezione. Oggi voglio parlare di pannelli solari. Mi affascina vedere come sia possibile generare energia dal sole, più di quanto mi affascinino gli impianti eloici, la cui trasformazione è meno “magica”.
Però, come ho già detto da qualche parte, mi spiace vedere campi “seminati” a fotovoltaico. Mi spiace che i pannelli prendano il posto delle colture. Mi pare ancora molto virtuoso quando vedo pannelli solari nelle pensiline dei parcheggi di qualche centro commerciale o di qualche azienda ma le campagne a specchio non mi piacciono e un po’ mi spaventano. Mi sembra che, come spesso accade, ci contrentriamo sull’oggi e non sul domani: oggi è molto semplice costruire in campagna, i costi sono contenuti e gli impatti strutturali minimi. Molto più intrusivo pensare di mettere un impianto su un capannone: bisogna valutare che la struttura possa sopportare il peso, che non sia intrusiva per le attività, ecc ecc.
Insomma, seminare un campo è più facile (e ad occhio meno costoso) che ricoprire un tetto. Invece io è su quelli che punterei, prima di privarci di spazi agricoli io penserei il sistema per ricoprire tutti i tetti dei capannoni delle nostre zone industriali, credo che potrebbe essere già un inizio.
Però mi rendo conto che adesso sono utopistico e dico cose facili all’approvazione, demagogiche. Però il succo è sempre quello: risolviamo un problema oggi e lasciamo ad altri il problema che questa soluzione potrà creare domani. Eistono guerre per il petrolio ma ne esistono anche per il cibo.
La scorsa settimana una persona mi ha detto “non esiste più il futuro di una volta”. Già.

venerdì 13 maggio 2011

Pece e piume, prendersi le colpe

Sono in missione speciale (per i coetanei….casinò royale) e mi capita quindi di sentire discorsi nuovi e interessanti.
Mi è capitato di sentire un’ interessante battuta circa il prendersi le colpe. Provo quindi a farci una riflessione. La battuta, more or less, era: le colpe di oggi domani saranno meriti, per questo vanno divise.
Questo mi porta due livelli di riflessioni.
Il primo è che questa potrebbe essere una frase che spinge al dividersi le colpe, che è uno sport molto diffuso. Le colpe possono essere di diverso tipo ed è giusto che ognuno si prenda le sue. Dire che le colpe di oggi potranno essere meriti di domani un po’ mi lascia perplesso proprio perché porta ad un’eccessiva condivisione. Le colpe non vanno condivise, vanno comprese e possibilmente devono portare miglioramenti. Anzi, mi contraddico subito, le colpe non vanno divise, vanno condivise perché siano un’opportunità di crescita per tutti.
Però, in fin dei conti, non è che l’affermazione mi dispiaccia. Cioè, all’altro estremo del dividere le colpe sempre e comunque, c’è il farsi carico di colpe, magari apertamente, magari cosparsi di cenere o di pece e piume, dipende dai gusti. E’ un po’ la sindrome del “come sono severo io con me stesso non lo è nessuno”.
Parla con me e vedrai come riesco ad essere severo con te, se voglio.
Nessuno è severo con se stesso oltre ad una certa accettabilità, spesso non ci perdoniamo i limiti perdonabili. Ciò che sarebbe accettabile diventa il nostro personale cruccio, la cosa che proprio non ci perdoniamo. Così appariamo molto severi verso di noi.
Quindi prendersi le colpe è un po’ un’arma per difendersi dalle accuse. Sbagliare è possibile, cercare il colpevole può non essere così utile. Meglio concentrarsi sulle cause rispetto ai colpevoli. Però prendersi le colpe è un po’ come giustificarsi a scuola, un’ammissione di colpa preventiva. Ok, ho sbagliato, è colpa mia, mica mi vorrai cazziare, ho già ammesso lo sbaglio, sono già con la orecchie basse. Quindi l’assumersi le colpe spesso diventa uno strumento di difesa preventiva più che prendere coscienza ed ammettere gli errori.
Forse quindi è vero che qualcuno usa le colpe di oggi aspettandosi dei meriti domani, è sempre colpa della nostra paura di sbagliare e dell’errore. Ma non siamo perfetti, siamo solo perfettibili.
Come spesso si scrive nelle farsi di presentazione che i social network hanno reso necessarie: if u’ve never failed, u’ve never lived. Quindi non preoccupiamoci di sbagliare e non spaventiamoci per l’errore.

mercoledì 11 maggio 2011

Banalità sulla pubblicità

Efficace dopo solo 10 giorni; vantaggi evidenti già dalla prima applicazione; 9 specialisti su 10 lo consigliano; il miglior prodotto contro la “qualunque”, test clinici non sbagliano; 40 donne hanno notato miglioramenti già dopo una sola settimana.
Quanto volte sentiamo frasi simili nelle pubblicità, quante volte ci sono “elementi concreti” a supporto dell’efficacia di qualcosa. Ormai abbiamo testimonial evoluti che portano in dono il sapere e che danno valore scientifico alla bontà di quello che ci vendono. Ormai abbiamo oli che fanno resuscitare motori, creme che trasformano uomini in George Clooney e donne in Megan Fox, profumi in grado di scolpire addominali, bianchi che più bianco non si può.
Giusto ieri mi interrogavo durante un pranzo su una cosa: ma voi, quando vi dicono che spalmando una crema già dopo una settimana si vedono i risultati sulla vostra linea ci credete? Cioè, quando comprate un dentifricio che protegge tre volte tanto dalla placca e riduce l’insorgenza del tartaro (avete notato che il tartaro è passato di moda, adesso si parla di placca. Quando ero piccolo esisteva solo la carie) voi ci credete? Credete che il vostro motore possa vivere due volte di più se usate uno stesso olio?
Io c’ho pensato: non ci credo. Non credo neppure ad uno dei numeri che danno, neppure al fatto che nove specialisti su dieci lo consiglierebbero. Però magari compro quel dentifricio perché dico, magari non riduce di due terzi l’insorgenza della placca ma se fa solo un quindici percento è già un risultato. Perché faccio così? In realtà devo dire che non faccio neppure così, mi fido molto più del marchio che del prodotto, mi fido dei prodotti NaturaSì, Ecor, AlceNero, oppure Barilla, Colgate, ecc ecc. Sono caduto nel trappolone degli uffici marketing? Direi di sì.

Però non in tutti gli ambiti: per quanto sia alla ricerca di un modo per sostituire i sacrifici per ottenere una forma fisica decente non ho mai tentato la via dei miracoli, delle barrette, delle pillole, dei beveroni, degli yoghurt. Perché questo? Mi sono dato una risposta. Se per me l’ambito non è importante allora posso accettare di raccontare a me stesso che mi stanno quanto meno ingannando (cioè che il prodotto fa bene al motore della mia auto ma non fa miracoli), se la cosa per me è importante non posso accettare di essere preso in giro, cioè non posso giustificare a me stesso di aver preso una cantonata. Mi spiego, in entrambi i casi sono consapevole che un prodotto non mi darà quello che spero ma nel caso di un argomento per me importante non posso giustificare la mia ingenuità nel crederlo. Sarà la matrice culturale cattolica che ho respirato ma mi ronza in testa l’idea che le cose non possono essere facili, specie quelle importanti.
In realtà non è così, ma questo lo dirò magari in un altro post.

lunedì 9 maggio 2011

Lavorare sugli obiettivi

E’ un periodo di obiettivi. Forse siamo un po’ fuori stagione ma mi ronzano attorno obiettivi e traguardi.
Mi capita di parlare con persone che si danno obiettivi, che vogliono raggiungere obiettivi e chi più ne ha più ne metta.
Alcuni sono in ritardo (chi vuole superare la prova bikini) altri in anticipo.
Volevo però parlarvi degli obiettivi che ci danno al lavoro, quello che i nostri capi e le aziende si aspettano.
Le aziende tendono a definire gli obiettivi con aggettivi qaulificanti, esistono obiettivi minimi, soglia, eccellenti, ecce cc. Solo che questi aggettivi non aiutano a capire cosa si intende per obiettivo. Proseguiamo.
Esistono obiettivi individuali, la mia Job Description è piena di eccellenze da perseguire, ma anche aziendali. A giudicare da quello che è scritto nella mia JD, devo essere molto performante per fare la metà delle cose che mi sono chieste in maniera appena sufficiente. Figurarsi essere eccellente.
Per qualche strana ragione però questo potrebbe bastare, all’azienda potrebbe andare bene un dipendente che non raggiunge in maniera brillante i propri obiettivi.
Questo succede quando gli obiettivi del singolo non sono congrui con quelli aziendali. Quando nel definire le eccellenze si punta solo quelle dell’individuo.
Sentiamo sempre parlare di lavoro di squadra, di team, di fare gruppo ma quando arriva il momento degli obiettivi si punta sempre all’eccellenza dell’individuo. Anzi si punta sempre a stressare l’obiettivo del singolo a portarlo sempre a vette più alte. Solo a qualche manager è concesso il privilegio di avere degli obiettivi che si sviluppano con il team.
Ma il mio risultato migliore, la mia eccellenza potrebbe non coincidere con il bene dell’azienda, potrebbe essere non perfettamente sincrona.
Vi riporto un esempio che ho sentito giusto un anno fa. C’era un team di formula uno in cui gli ingegneri motoristi avevano sviluppato il motore più performante di tutti quelli in gara. Era potente, affidabile, elastico, aveva tutto quello che i poteva chiedere ad un motore. Il team di motoristi aveva creato il motore perfetto, il propulsore che suscitava invidia a tutto il circo.
Nonostante questo la macchina non vinceva e la colpa ricadeva sul team preposto all’aerodinamica, su quello che si occupava dell’elettronica, ecc ecc.
A quel punto arriva il nuovo direttore del team che per la prima volta chiede al gruppo che si occupa dell’assetto dell’auto che cosa avrebbe dovuto avere il motore per essere perfetto per loro.
La risposta fu qualcosa tipo “piccolo e leggero”. Il team dei motoristi disse che con quei vincoli non avrebbero raggiunto le stesse potenze di prima. Fu fatto un tentativo e i risultati della Ferrari sotto l’ala di Jean Todt li conosciamo tutti. La macchina divenne imbattibile.
I motoristi dovettero accettare che non veniva chiesto a loro solo un risultato eccellente (un ottimo motore) ma veniva indicato un obiettivo eccellente legato alle necessità del team corse.
Non facevano la cosa migliore che potevano fare, facevano la cosa migliore per ottenere il risultato migliore.
Quindi è sempre importante tenere presente cosa si intende per ottimo lavoro, il mio ottimo lavoro, legato alle mie attività può non essere quello che è maggiormente funzionale per l’azienda. Meglio, in realtà il mio lavoro eccellente non può prescindere da un impatto più grande di quello della mia mansione.
Cosa me ne faccio di un prodotto eccellente se non genera vantaggio per il sistema azienda.

venerdì 6 maggio 2011

Avviso a chi si approfitta della gentilezza. C'è un nuovo sheriffo in città


Porgere l’altra guancia. E’ un’indicazione che fa parte della nostra cultura per via del Cattolicesimo che influenza la nostra società. Tutti conosciamo il “porgere l’altra guancia” e tutti siamo rimasti perplessi. Secondo me è uno dei concetti più difficili da accettare.
Cerco sempre di essere una persona gentile, lo sono spesso troppo, evito di indispettire e infastidire gli altri nella speranza che facciano altrettanto. Non sempre capita, anzi ho visto che la gentilezza attira spesso chi se ne approfitta. Non è un atteggiamento particolarmente efficiente, anzi è dispersivo e rende molto poco.
Però ormai sono fatto così, mi riesce di essere diverso solo quando sono nervoso e la gente se ne rende conto, subito.
La cosa che però ho imparato è che nel “porgere l’altra guancia” manca un pezzo.
Manca l’altra parte della relazione. Ci hanno insegnato che una comunicazione è fatta da almeno due soggetti, un emittente ed un ricevente. Questo lo possiamo pensare anche per una relazione, vi sono comunque due soggetti. Sin da piccoli ci hanno detto che un fosso si fa con due rive e ci hanno detto questo per far sì che prestassimo attenzione alla nostra di riva.
Ebbene c’è una novità, il fosso si fa con due rive significa che se vogliamo costruire un ponte bisogna che anche dall’altra parte si cominci a costruire, altrimenti, se lo costruisco io il ponte poi è mio e ne dispongo come credo.
Ci è sempre stato detto di badare a quello che facevamo noi, di sforzarci di creare una comunicazione e una relazione, che eravamo responsabili di quello che comunicavamo, di quanto veniva compreso dei nostri discorsi.
Tutto vero, anzi verissimo.
Però esistono anche gli altri, io sono responsabile di quello che trasmetto, devo assicurarmi che venga compreso, devo creare relazione, devo avere apertura verso gli altri.  
Però o l’altro fa altrettanto o sto solo perdendo tempo.
E’ giusto insegnare responsabilità verso le relazioni con le persone ma è giusto cominciare a diventare economici ed efficienti. Se il ponte inizia da entrambi i lati ci incontreremo, magari non al centro ma ci incontreremo, se il ponte lo faccio io poi preparati al fatto che la relazione la gestisco io.
Non smetterò di porgere l’altra guancia perché è nel mio modo di fare e perché non voglio smettere. Però attenzione a quello che fate con la mia guancia, ne ho due e se vi porgo la seconda probabilmente già mi girano le balle.

mercoledì 4 maggio 2011

Gaia e il Rasoio di Occam. Sfida alla semplicità

Eccomi qua, Giulia fuori e io solo con la nanetta. Un po’ mi inquieta, mi fissa da un po’ con fare interrogativo. Da qualche tempo quando fa la faccia tenera e gli occhi dolci lo fa per attrarmi verso di lei e strapparmi repentinamente gli occhiali. Eccola, mi fa di nuovo quello sguardo, io so di non dovermi avvicinare ma lei è incantevole (mi incanta) e irresistibile (non posso resisterle), mi avvicino e lei si aggrappa alla barba. Un’idea nuova. Non guarda me, guarda la mia barba fra le sue mani e poi mi fa: “Mi spieghi bene il rasoio di Occam?”
N: “Come scusa?”
G: “Sì, ho capito che c’entra con la semplicità, con il non complicare ciò che funziona ma vorrei più dettagli”;
N: “Guarda, hai già detto due cose che mi fan capire che ne sai più di me. Ma come ti è venuto in mente?”;
G: “Ah, ti stavo fissando e contemporaneamente pensavo a delle cose che devo fare che mi danno da pensare, così, per associazione di idee, ho visto la tua barba lunga e ho pensato: rasoio!”
N: “Ohi, quali sono le cose che ti danno dei pensieri?”;
G: “Nulla di cui impensierirsi, sai mi stanno venendo fuori i dentini, ho sempre dei nuovi sapori da mangiare la sera, voglio cercare di stare sveglia di giorno perché giocare è bellissimo e le nonne e la mamma sono troppo divertenti, cose così”.
N: “Immagino che per te siano comunque questioni grandi, che tu abbia di che pensare”;
G: “In realtà sono partita anche io così, sai comunque sono tante cose, io voglio essere felice, mi piace ridere e sorridere. Poi l’altro giorno mi sono trovata da sola e mi è venuto in mente il Rasoio di Occam e mi son detta: Gaia, pensa semplice, trova soluzioni semplici”;
N: “Eh, sembra facile ma non lo è. Sai, ci sono problemi con molte variabili, molte cose da tenere sotto controllo.”;
G: “Proprio per questo volevo approfondire il discorso sul caro Occam perché secondo me non c’è solo l’aspetto che la soluzione più semplice è anche quella migliore, c’è anche il fatto di non moltiplicare gli elementi, non creare noi della complessità”;
N: “Mi ripeto ma non è così facile da controllare, ci sono mille elementi da considerare, la natura, il contesto, sono pieni di complicazioni”;
G: “Ok, lo ammetto ma se interpeto bene il concetto del Rasoio, Occam non dice che non ci sono complessità, dice di non aggiungerle. Cioè, è come quando ci diciamo di far parte della soluzione e non del problema. Non sempre è facile semplificare ma sempre è possibile complicare. Ecco io per affrontare i miei problemi ho deciso che non voglio complicare, mi pare un buon inizio”;
N: “Bisogna che vada a ripescarmi Occam, la tua lettura della cosa mi pare niente male”;
G: “Grazie, adesso però meglio se dormo un po’, passami Cico che mi concilia il sonno.”;
N: “Sognidoro piccolina mia”;
G: “Grazie, non ti tagliare la barba, mi devo aggrappare quando voglio sentirmi sicura.”
Dedicato a chi si chiede perché ho la barba lunga, se ancora non riuscite a capirlo non potrò mai pensare di spiegarvelo.

lunedì 2 maggio 2011

L'Italianità dei Call Center (o Centre)

Ecco, vorrei ora parlare un po’ di callcenter.
Vorrei che le decine di ragazzi e ragazze che ho avuto modo di sentire in questi anni di varie ed eventuali non si sentano chiamate in causa. Nel mio mestiere ho imparato presto che il mio ruolo ed il mio lavoro non sono io, che spesso viene preso di mira ed insultato il mio ruolo ma mai me stesso.
Spero che anche loro abbiamo questa consapevolezza, diversamente…..peccato per voi.

Allora, l’altra sera mi ritrovo a discutere con il callcenter di ENEL per via di una bolletta arrivata via posta lo stesso giorno della scadenza. Fra l’altro ho anche richiesto la domiciliazione bancaria ed invece mi arriva il bollettino.
Per scrupolo decido di chiamare e chiedere spiegazioni.
Intanto resto in linea qualche minuto, neppure troppi, in attesa che mi venga passato un “consulente”. Adesso li chiamano consulenti, non so se sia più una presa in giro per l’utente o per il povero ragazzo dall’altra parte del telefono. In genere il consulente collabora nell’identificazione di soluzioni, non fa da cuscinetto agli sfoghi.
Comunque mi risponde una ragazza alla quale espongo il problema, senza presentarmi. Mi sembra che la prima parte del problema sia generica, credo sia un semplice ritardo, mi aspetto che mi dica che non ci sono problemi. In parte è così, in parte invece inizia a dare giustificazioni non richieste accusando Poste Italiane di aver sbagliato i tempi mentre Enel è stata puntuale e precisa nell’invio.
Immagino due cose: la prima è che avranno chiamato già decine di rompiballe come me solo più incazzati, io sono sereno; la seconda cosa che immagino è una scenetta divertente, ovvero la ragazza che chiude la telefonata, appoggia il telefono e risponde ad un altro apparecchio dove prende le difese di Poste Italiane contro l’inadempienza di Enel. Spero sia così, almeno troverebbero un minimo di divertimento.
Avuta questa risposta ho anche fatto presente di aver fatto richiesta della domiciliazione bancaria e la ragazza mi dice che non le risulta, che non ha ricevuto il fax. E io qui mi son dormito una cosa importante: come faceva a sapere chi fossi, non le ho detto il mio nome e anche se fosse potrei avere degli omonimi, e ho chiamato da un cellulare. Credo che sia possibile schedarmi e rintracciarmi ma la cosa non mi fa impazzire di gioia.
Forse Enel e Poste Italiane si sono accordate, in questo momento di nuovi contratti, affinché le prime bollette passino comunque dalle poste, in modo da generare un po’ di utile anche per loro.

Ma non di questo volevo parlare.
Volevo parlare del ruolo dei callcenter in Italia.
Coloro che operano nei callcenter sono la migliore fotografia della realtà italiana che si può dare ad un extraterrestre.
Anzitutto solo in Italia una grossa azienda può avere tutto questo interesse ad allontanare da sé i clienti. O forse questo mi dovrebbe far riflettere su chi sono gli effettivi clienti di queste aziende.
Terziarizzare il rapporto coi clienti è una cosa che può non spaventare solo chi è molto sicuro ed arrogante rispetto al proprio ruolo.
Altrimenti, se un’altra azienda mi cercasse e mi desse servizio senza un terzo soggetto frapposto io la preferirei.
Perché i callcenter sono un terzo soggetto, non sono l’azienda. E ne ho le prove.
Sempre ieri la ragazza ribadiva come Enel fosse “innocente” rispetto la ritardo. Io non parlo con chi mi eroga il servizio, parlo con un’altra persona, messa lì perché io non possa parlare con chi mi eroga il servizio, che non ne faccia parte e che allo stesso tempo discolpi l’azienda.
Siamo noi Italiani, non ci sono dubbi.
La colpa scompare, si dirada nelle maglie delle telefonate, non si riesce mai a parlare con chi sbaglia ma solo con chi lo difende. Quindi nessun colpevole anzi spesso sparisce anche la colpa.
Chi sbaglia non deve assumersi responsabilità perché altri prenderanno le sue difese.
E io che faccio, mi incazzo con la ragazza del callcenter che ostenta accenti lontani quasi ad intenerirmi, che ho imparato lavora come precaria sfruttata, senza continuità, che fa un lavoro degno di Malussene, che magari ha alle spalle mille difficoltà?
No, spersonalizzo l’azienda, dico che Enel mi fa girare le balle, se vedo un’auto con la scritta Enel inveisco ma non ho nessuna persona con cui relazionarmi. Se non c’è persona e non c’è relazione non rimane nulla. Se fra me e chi mi ha trattato male non ci sono persone allora che faccio? Le uniche con cui posso parlare non sono colpevoli di nulla, sarebbe come se Willy il Coyote si incazzasse con Gatto Silvestro se non riesca a prendere Bip Bip, sappiamo tutti che non ha senso e Willy farebbe figura da stupido due volte.